La Cassazione penale, con sentenza 2 luglio 2024 n. 25756, ricorda il principio generale del diritto inalienabile e assoluto della sicurezza dei lavoratori. Tale principio è così rilevante che è applicabile anche in caso di attività svolta in volontariato, senza la presenza quindi di rapporti di lavoro. Il diritto inalienabile ed assoluto della sicurezza dei lavoratori viene ancora una volta confermato dalla Magistratura, che continua sul punto a mantenere la barra dritta, sostanzialmente non accettando eccezioni. Il caso che affronta la Cassazione, quarta sezione penale, n. 25756 del 2 luglio 2024 riguarda un'aggressione subita da una volontaria di un rifugio per cani, aggredita da un pitbull, che, a seguito dell'attacco, subiva conseguenze fisiche particolarmente gravi. Sia il Tribunale di Verbania in primo grado che la Corte d'appello di Torino condannavano il gestore del canile per il reato di lesioni personali, aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. In sostanza, i giudici censurano il responsabile della struttura per aver omesso di provvedere affinché i volontari operanti nel rifugio per cani ricevessero un'adeguata formazione e informazione in merito ai prevedibili rischi relativi alle loro attività e di non avere dotato la struttura degli idonei dispositivi di protezione individuale. A parte una serie di difese tecniche e procedurali, la difesa articolava principalmente la sua memoria sulla non assunzione per l'imputata di posizioni di garanzia ai sensi dell'art. 299 D.lgs. 81/2008, non avendo mai ricoperto alcun potere riconducibile a quello di un datore di lavoro o di un dirigente di fatto, non essendo l'evento inquadrabile nella definizione di ambiente di lavoro, e non essendoci alcuna organizzazione del lavoro perché la struttura era gestita da soli volontari. La Cassazione conferma il giudizio delle corti di merito, rigettando il ricorso e condannando definitivamente l'imputato. Vediamo perché. La protezione dei lavoratori ha ormai un connotato giuridico preciso, a partire dalle fonti di diritto internazionale. Basti pensare all'art.3 della Carta Sociale Europea, alle numerose Dichiarazioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (da ultimo l'integrazione dell'11 giugno 2022), al Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (art. 151, 153), a numerose Direttive Europee (ad esempio Direttiva 89/391/CEE). La lettura integrata di tutte queste norme porta alla fine ad una serie di principi generali: la centralità della persona rispetto all'impresa, l'individuazione del datore di lavoro come soggetto responsabile, l'importanza imprescindibile della prevenzione e/o gestione del rischio lavorativo, da realizzarsi attraverso le fasi della valutazione, delle misure per annullare e/o attenuare i pericoli, del controllo e dell'aggiornamento delle procedure atte a tale ultimo scopo. Sotto il profilo del diritto italiano, le fonti vanno ricercate nell'art. 41 della Costituzione, nell'art. 2087 c.c. e da tutto l'impianto del D.lgs. 81/2008. Il codice dispone che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Per particolarità di lavoro deve intendersi la conoscenza specifica che l'imprenditore deve avere o comunque deve ricercare, anche mediante il supporto di collaboratori esterni, dell'attività lavorativa che vuole intraprendere, per esperienza va intesa l'attenzione, da parte dell'imprenditore e dei suoi collaboratori, ai fatti che accadono nell'esercizio delle attività lavorative del proprio business, per tecnica si intende che il datore di lavoro ed i suoi delegati e collaboratori nella materia, secondo criteri di prudenza, diligenza e perizia, oltre ad adottare inizialmente ogni accorgimento per garantire l'incolumità dei dipendenti, devono anche seguire l'evoluzione tecnico – scientifica del settore, sempre al fine di garantire la massima sicurezza. In questa logica, accanto alle classiche obbligazioni del contratto ai sensi dell'art.2094 c.c. (prestazione vs. retribuzione), il datore di lavoro è obbligato a un intreccio indissolubile di “fare” e “non fare”, al fine di garantire che lo svolgimento del rapporto non si riveli fonte di pregiudizio per il lavoratore (cfr. Cassazione, n.34968 del 28 novembre 2022). Nella fattispecie concreta, però, la questione è: tali principi sono anche applicabili non nell'ambito di un rapporto lavorativo, per un volontario e non un dipendente ? La risposta, secondo i tre gradi di giudizio, è sì, sostanzialmente per i seguenti principi:
- la posizione di garanzia non è esclusiva del rapporto di lavoro subordinato ma può sussistere anche in situazioni di lavoro volontario o per amicizia, per riconoscenza o comunque in situazione diversa dalla prestazione del lavoro subordinato, purché detta prestazione sia stata effettuata in un ambiente che possa definirsi “di lavoro”;
- quanto sopra, in conformità alla definizione del datore di lavoro, come il soggetto titolare del rapporto di lavoro o comunque il soggetto che ha la responsabilità dell'organizzazione in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa (cfr. art.2 lettera b del D.lgs n.81/2008)
- se quindi ci si trova nell'ambito di un'organizzazione, il datore di lavoro è tenuto a formare i collaboratori volontari sullo svolgimento in sicurezza delle attività operative, eliminare o comunque ridurre i rischi, fornire ai volontari dettagliate informazioni sui rischi specifici e adottare le misure di prevenzione ed emergenza in relazione alle attività.
La condanna dell'imputato deriva dal fatto che non sia stato assolto alcun obbligo di formazione e informazione e che fossero assenti dispositivi di protezione individuale o di sicurezza, soprattutto in riferimento ai cani più pericolosi. La sentenza infine ricorda un precedente in materia, Cassazione Penale, sezione quarta, n. 7730 del 2008, nel quale veniva riconosciuta la responsabilità di un parroco per l'infortunio occorso ad un fedele impegnatosi volontariamente nell'approntamento della struttura depositata allo svolgimento di una festa parrocchiale. La pronuncia di Cassazione non ne fa alcun riferimento, ma occorre ricordare anche un altro principio generale sancito dall'art. 2050 c.c., non nello specifico ambito lavoristico: “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un'attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. Tale norma si riferisce sia alle attività pericolose tipizzate, nel codice o in leggi speciali, sia a quelle che siano tali per la loro attitudine a produrre un rischio (per esempio l'attività di caccia, per la quale è obbligatoria l'assicurazione per responsabilità civile). Nella prova liberatoria richiesta, la giurisprudenza è particolarmente rigorosa, tanto che si arriva quasi a sostenere che si tratti di una responsabilità oggettiva, o quantomeno, aggravata. La questione è particolarmente delicata perché, da una lettura estensiva del principio, si può correre il rischio che quasi tutti gli infortuni – a prescindere- siano responsabilità del datore di lavoro e/o dei suoi delegati, ovvero di chiunque organizzi qualsiasi attività. In senso contrario, è quindi particolarmente interessante segnalare due sentenze di Cassazione:
- Cassazione penale, sezione IV, 26 maggio 2022, n. 31478 , assolve il datore di lavoro in un caso di infortunio mortale occorso durante l'effettuazione di una manovra di retromarcia da parte di un autocompattatore nell'ambito di una attività di raccolta rifiuti. La Corte rimarca come – a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di appello che aveva condannato il datore di lavoro – l'evento verificatosi non era riconducibile al novero dei rischi che possono essere previsti dal datore di lavoro, a conferma del fatto che la valutazione dei rischi non deve (e non può) ricomprendere tutto ciò che può accadere in azienda;
- Cassazione penale, sez. IV, 24 maggio 2022, n. 34944 , assolve il datore di lavoro in un caso di infortunio mortale occorso durante la consegna di cibo (ordinato a distanza) ad un lavoratore su un ciclomotore, che perdeva la vita urtando a terra con la testa. La Corte sottolinea come – anche qui riformando la sentenza dei giudici di appello che avevano condannato l'azienda – l'evento non sia addebitabile al datore di lavoro, che aveva proceduto alla relativa valutazione dei rischi professionali fornendo al dipendente un casco omologato, per quanto di tipo “jet”. La circostanza che sul mercato ci siano caschi più “protettivi” è stata ritenuta dai giudici non tale da determinare una condanna del datore di lavoro per violazione dell'art. 2087 c.c., che non è stato inteso quindi come tale da imporre un obbligo “indeterminato” quanto alla sua estensione a carico dell'azienda.
In entrambi i casi, comunque, trattasi di esempi dove il datore di lavoro aveva valutato i rischi ed adottato alcune misure di protezione mentre, nella fattispecie in esame, la titolare del canile non aveva svolto nessuna attività di formazione, informazione, protezione e individuazione dei rischi, e per questo è stata condannata.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL