Nell’impresa familiare riconosciuto anche il convivente
- 26 Luglio 2024
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È costituzionalmente illegittimo il comma dell’articolo 230-bis del Codice civile nella parte in cui, disciplinando l’impresa familiare, non prevede, alla stessa stregua del familiare, anche il convivente di fatto, diversamente da quanto avviene (per effetto della legge Cirinnà, 76/2016) con il componente dell’unione civile. Conseguentemente, è illegittimo anche l’articolo 230-ter del Codice civile, che attribuisce al convivente more uxorio una tutela ingiustificatamente discriminata rispetto a quella riconosciuta ai familiari e al componente dell’unione civile. Questo il principio che emerge dalla sentenza 148/2024 della Corte costituzionale depositata il 25 luglio, chiamata in causa dalla Corte di cassazione (Sezioni unite civili). Quanto deliberato dalla Consulta non mancherà di avere effetto anche sotto gli aspetti fiscali e previdenziali. L’articolo 230-bis disciplina (dal 1975) l’impresa familiare, riconoscendo (salvo che non sia configurabile un diverso rapporto) al familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa una serie significativa di diritti, ripresi in ambito fiscale dall’articolo 5, comma 4, del Tuir. A questi fini, per familiari si intendevano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. Con l’entrata in vigore della legge Cirinnà sulle unioni civili, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, nei regolamenti, negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano (pur con alcune eccezioni) anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (articolo 1, comma 20, della legge 76/2016). Ciò, tuttavia, non accade al convivente di fatto (parte della coppia di maggiorenni uniti stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale) a cui, nel caso specifico, la legge Cirinnà ha riconosciuto, attraverso l’introduzione dell’articolo 230-ter del Codice civile, una tutela più limitata. Tanto è vero che sia l’Inps (circolare 66/2017) che l’Ispettorato del Lavoro (parere Inl 879/2023) hanno affermato che, se il componente dell’unione civile può essere considerato come «familiare» ai fini dell’articolo 230-bis, così non accade nei confronti del convivente more uxorio, il quale, sebbene presti analoga attività lavorativa in modo continuativo presso l’impresa del convivente, non può essere inquadrato come collaboratore familiare. Questo trattamento differenziato, secondo la Corte di cassazione remittente, è irragionevole e non può essere superato da una lettura estensiva delle disposizioni vigenti. Posizione accolta in pieno dalla Corte costituzionale nella pronuncia depositata ieri, in cui si osserva che, seppur rimangano nel nostro ordinamento alcune differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, i diritti fondamentali devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni. E tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione nel contesto di un’impresa familiare, il quale impone uguale tutela tra coniuge, componente dell’unione civile e convivente di fatto.
Fonte: SOLE24ORE