Risarcimento: il datore non risponde della patologia pregressa

Risarcimento: il datore non risponde della patologia pregressa

  • 17 Luglio 2024
  • Pubblicazioni
Il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere delle conseguenze di una patologia pregressa del dipendente ma solo del maggior danno o dell’aggravamento intervenuto per effetto della sua condotta, i quali non si sarebbero verificati senza di essa. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con ordinanza 4 luglio 2024 n. 18298. Nel caso in esame, la Corte d’appello territorialmente competente, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava una società al pagamento in favore di una propria lavoratrice “a titolo di risarcimento del danno, della minor somma di € 9.206,00 (anziché € 54.216,00) oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dall’1.10.2017 sino al saldo”, con restituzione in suo favore delle somme versate in esecuzione della decisione del primo giudice. Ad avviso della Corte distrettuale la sentenza di primo grado non poteva essere confermata laddove, a fronte della pacifica sussistenza in capo alla lavoratrice della patologia al momento della costituzione del rapporto di lavoro, aveva determinato “il danno risarcibile sulla base della totale entità del danno alla salute (pari al 18%)” riscontrato. Tale operazione doveva, invece, essere effettuata “considerando la differenza tra lo stato di invalidità complessivamente presentato dal danneggiato dopo il fatto illecito e lo stato patologico pregresso”. La lavoratrice ricorreva così in cassazione, affidandosi a due motivi a cui resisteva, con controricorso, la società datrice di lavoro. In particolare, la lavoratrice eccepiva che:
  • “la predisposizione fisica del soggetto […] non incide sulla responsabilità del danneggiante – e, cioè, nel caso di specie, del datore di lavoro – che è tenuto a risarcire il danno nel suo intero ammontare” e
  • la Corte distrettuale aveva comunque errato nel quantificare “la percentuale di aggravamento” imputabile a responsabilità datoriale. Ciò in quanto aveva recepito acriticamente la consulenza d’ufficio e non aveva tenuto conto delle “ripercussioni esistenziali ed economiche” che la condotta datoriale aveva avuto sulla sua vita, dovendosi anche applicare la cd. “personalizzazione massima”.
Con riferimento al primo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione, richiamando un suo precedente, precisa che il principio generale di causalità trova la sua disciplina positiva, anche nell'ambito del diritto civile, negli artt. 40 e 41 c.p. In particolare, l'art. 40 c.p. prevede che nessuno è responsabile per un fatto se l’evento dannoso "non è conseguenza della sua azione od omissione” (cfr. per tutte Cass. n. 13400/2007). In sostanza, “per fondare la responsabilità è necessario che la condotta dell'agente, dolosa o colposa, attiva od omissiva, abbia avuto efficienza causale, anche soltanto a livello di concausa, nella produzione dell'evento dannoso, che quest'ultimo si sia verificato a causa della condotta (anche se non necessariamente soltanto a causa di essa), e, correlativamente, che quell'evento non si sarebbe verificato se quella condotta non fosse stata posta in essere”. Non può sussistere, invece, alcuna responsabilità dell’agente per quei danni che non dipendono dalla sua condotta e che si sarebbero verificati anche senza di essa. Ne consegue che non può essere addebitato all’agente quel danno che si sarebbe comunque verificato indipendentemente dalla condotta, e, a maggior ragione, quello che era preesistente. Deve essere, invece, addebitato all’agente il maggior danno oppure l'aggravamento, che sia intervenuto per effetto della sua condotta, i quali non si sarebbero verificati senza di essa. E, in tal caso, l’agente è responsabile “soltanto della differenza tra il danno che si sarebbe verificato in ogni caso, oppure che era preesistente, e quello che invece è stato raggiunto una volta che su quanto preesistente, o comunque estraneo alla condotta di quel soggetto (perché imputabile ad altri soggetti o dovuto a cause naturali non addebitagli all'uomo), si sono innestate, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, le conseguenze della condotta”. Calando questi principi al caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, la società non può essere chiamata a rispondere delle conseguenze della patologia di cui già soffriva la lavoratrice e che non è stata causata dalla sua condotta inadempiente. Il nesso causale, continua la Corte di Cassazione, sussiste solo tra la condotta inadempiente e l’aggravamento della patologia in questione, nella misura incrementale stimata dal Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU). Ragionando diversamente, la società sarebbe responsabile di danni ai quali non ha dato causa e che si sono già realizzati indipendentemente dal suo successivo inadempimento. Passando al secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione evidenzia che la “quantificazione della percentuale di aggravamento” costituisce accertamento di fatto devoluto al giudice del merito, che non può essere dalla stessa riesaminato, “tanto più mediante un mero dissenso alle conclusioni peritali condivise dai giudici d’appello”. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dalla lavoratrice, condannandola alle spese di giudizio.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL