Rifiuta di seguire le direttive aziendali: licenziamento

Rifiuta di seguire le direttive aziendali: licenziamento

  • 17 Luglio 2024
  • Pubblicazioni
Il rifiuto del lavoratore di rendere la propria prestazione secondo le direttive aziendali, opposto reiteratamente e ingiustificatamente per più giorni, costituisce condotta idonea a ledere definitivamente il vincolo fiduciario e a giustificare il licenziamento. A statuirlo è la Cassazione, con ordinanza 24 giugno 2024 n. 17270. Nella fattispecie in esame, la Corte d'appello territorialmente competente accoglieva il reclamo proposto da una società, respingendo, in riforma della decisione di primo grado, l'impugnativa del licenziamento per giustificato motivo soggettivo proposta da un proprio dipendente nel 2018.
Nel formulare la sua decisione, la Corte distrettuale evidenziava, innanzitutto, che:

- il licenziamento era stato intimato a fronte del rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa per 4 giorni;
- il lavoratore aveva confermato, in sede di interrogatorio libero, le dichiarazioni a sua firma apposte sugli ordini di servizio in forza dei quali veniva assegnato ad eseguire la raccolta dei rifiuti con l'ausilio di un automezzo aziendale;
- su tali fogli il lavoratore aveva scritto di essere un operatore ecologico, di non essere tenuto a svolgere mansioni di autista e che sarebbe rimasto a disposizione in cantiere;
- solo durante l'interrogatorio libero era emerso che il lavoratore in quel periodo aveva avuto un problema fisico, con la produzione in giudizio di un certificato, rilasciato il 7 agosto 2019, in cui il medico attestava di averlo avuto in cura dal 2 agosto 2018 alla metà di settembre 2018 per una patologia per la quale aveva consigliato il riposo assoluto.

Ad avviso dei giudici di merito tale patologia non era rilevante, in quanto in contrasto con la dichiarazione scritta resa dal lavoratore sui fogli di servizio secondo la quale il rifiuto di rendere la prestazione rappresentava una contestazione a fronte della disposizione di dover guidare l'automezzo aziendale. Peraltro, alla luce delle declaratorie del CCNL di settore, la conduzione di automezzi, per cui era richiesto il possesso del patente B, rientrava nel suo profilo professionale e, pertanto, l'azienda ben poteva adibirlo come operatore singolo all'attività di raccolta con la conduzione del mezzo. Ne conseguiva che la condotta assunta dal lavoratore, in assenza di alcune esimente, integrava gli estremi del grave inadempimento contrattuale ex art. 2104, comma 2, c.c. e 70, comma 4, lett. e), del CCNL di settore. La Corte d'appello riteneva così la sanzione espulsiva proporzionale rispetto al fatto contestato, avendo il lavoratore reiteratamente e ingiustificatamente opposto il rifiuto di adempiere la prestazione lavorativa per più giorni. Ciò con l'evidente intento di non accettare la conduzione dell'automezzo sebbene necessaria per l'espletamento del servizio pubblico appalto alla società.  Avverso la decisione di secondo grado il lavoratore ricorreva in cassazione, affidandosi a due motivi a cui resisteva la società con controricorso. In particolare, il lavoratore evidenziava che l'art. 73 del CCNL di settore, relativo ai procedimenti disciplinari, disciplinava al primo comma il licenziamento con preavviso ed al secondo comma disponeva che lo stesso “si può applicare nei confronti di quei lavoratori che siano incorsi per almeno tre volte nel corso di due anni per la stessa mancanza o per mancanze analoghe in sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un totale di 20 giorni o, nello stesso periodo di tempo, abbiano subito almeno quattro sospensioni per 35 giorni complessivamente anche se non conseguenti all'inosservanza dei doveri di cui all'art. 70”. A suo parere, dal combinato disposto delle due previsioni emergeva che al datore di lavoro era precluso applicare la sanzione espulsiva ove non ricorressero i presupposti fattuali di cui al secondo comma del predetto art. 73 ed il giudice non avrebbe potuto estendere il catalogo delle ipotesi di giustificato motivo oggettivo oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti.

Inoltre, il lavoratore eccepiva che:

- il datore di lavoro, nella lettera di licenziamento, aveva espressamente richiamato l'art. 73 del CCNL di settore e non il principio generale di cui all'art. 2119 c.c.;
- il principio di immodificabilità dei motivi di contestazione riportati nell'atto di recesso aveva precluso al datore di lavoro di integrare questi motivi nel corso del giudizio;
- il giudice d'appello era incorso nel vizio di ultrapetizione nel momento in cui aveva fatto applicazione dell'art. 2119 c.c., disattendendo l'art. 73 del CCNL.

La Corte di Cassazione, investita della causa, ha richiamato un suo precedente orientamento secondo il quale dalla natura legale della nozione di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento deriva che l'elencazione delle ipotesi ricadenti nell'una o nell'altra nozione ha valenza meramente esemplificativa che non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. 2830/2016; Cass. n. 4060/2011; Cass. 5372/2004; Cass. n. 27004/2018). Giudice al quale spetta, non essendo vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, la valutazione della gravità del fatto e della sua proporzionalità rispetto alla sanzione comminata al dipendente, avuto riguardo ad elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie (fra tutte Cass. n. 33811/2021). La “scala valoriale”, continua la Corte di Cassazione, formulata dalle parti sociali “costituisce solo uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.” (Cass. n. 17321 del 2020; n. 16784 del 2020). A conferma di questa tesi la Corte cita l'art. 30 della Legge n. 183/2010 secondo cui il giudice, “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento (…) tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (…)”. Nel caso di specie, sottolinea la Corte di Cassazione, la Corte distrettuale si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni di giusta causa e giustificato motivo soggettivo nonché di proporzionalità della misura espulsiva e ha motivatamente valutato la gravità dell'infrazione. In particolare, la stessa ha osservato che il rifiuto del lavoratore di rendere la propria prestazione secondo le direttive aziendali, opposto “reiteratamente ed ingiustificatamente per più giorni” ed in modo tale da impedire il regolare espletamento del servizio pubblico appaltato alla società, costituisce condotta idonea a ledere definitivamente il vincolo fiduciario e a giustificare il recesso. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso proposto dal lavoratore, condannandolo alle spese del giudizio di legittimità.