Negli Usa vietati i patti di non concorrenza

Negli Usa vietati i patti di non concorrenza

  • 17 Luglio 2024
  • Pubblicazioni
È del 23 aprile 2024 la decisione adottata dalla Federal trade commission degli Stati Uniti d’America con cui sono stati vietati, su tutto il territorio federale, i patti di non concorrenza stipulati tra datori di lavoro e lavoratori. Secondo l’agenzia governativa statunitense, l’esigenza di salvaguardare la posizione di mercato della singola impresa riduce la mobilità lavorativa e le opportunità di carriera dei lavoratori, restringendone, inevitabilmente, la libertà di iniziativa economica. Dunque, tra i diritti soggettivi, tra loro confliggenti, coinvolti dalle clausole di non concorrenza, la Federal trade commission assegna assoluta preminenza all’interesse del prestatore di lavoro di svolgere, dopo la cessazione del rapporto, un’attività che, seppur concorrenziale, sia coerente con il proprio bagaglio professionale, così sacrificando la protezione del patrimonio aziendale del precedente datore di lavoro. Tale approccio si allontana significativamente da quello adottato nel nostro ordinamento che, al contrario, nell’ambito della disciplina contenuta nell’articolo 2125 del Codice civile - rimasta immodificata dal 1942 a oggi - cerca di bilanciare i contrapposti interessi datoriali e del lavoratore. La nostra disciplina, infatti, da un lato fornisce all’impresa uno strumento «con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto», idoneo a proteggerne l’organizzazione, i metodi, i processi di lavoro e la clientela. Si tratta di componenti del know-how aziendale conosciute dal prestatore di lavoro e, da questi, potenzialmente spendibili una volta scioltosi dal vincolo contrattuale con il precedente datore. Dall’altro lato, l’articolo 2125, subordinando la validità di tale tipologia di patto a stringenti requisiti di forma e di contenuto - in termini di previsione di un corrispettivo adeguato per l’astensione dall’attività concorrenziale, di determinati limiti di oggetto, di durata e di territorio - si erge, allo stesso tempo, come norma protettiva verso il lavoratore subordinato, imponendo, di volta in volta, una valutazione rigorosa della legittimità dell’accordo concluso dalle parti. In altri termini, dunque, la salvaguardia della posizione di mercato dell’impresa che il patto di non concorrenza mira a realizzare si confronta, nell’ambito dell’articolo 2125 del Codice civile, con il contrapposto interesse del prestatore di lavoro a poter svolgere un’attività non soltanto idonea a procurargli una retribuzione sufficiente e adeguata, ma anche in linea con il proprio bagaglio professionale, senza, però, che nessuno dei due interessi, almeno in astratto, soccomba o, al contrario, venga considerato talmente preminente da dover imporre il sacrifico dell’altro. Questa ricerca del delicato equilibrio tra la protezione del patrimonio aziendale e il diritto al lavoro del singolo contrasta nettamente con la decisione della Federal trade commission che, rimuovendo totalmente le clausole di non concorrenza e mettendo, piuttosto, al centro esclusivamente la possibilità di reinvestimento della professionalità del lavoratore, segna una svolta epocale nell’ambito del mercato del lavoro. Ci si chiede, a questo punto, quale tra i due modelli risulterà vincente nel lungo termine: se l’audace mossa statunitense di svincolare il potenziale dei lavoratori dopo la cessazione del rapporto di lavoro, stimolando, in questo modo, innovazione e dinamismo oppure l’approccio italiano (ed europeo) teso ad assicurare protezione a tutte le parti coinvolte, ricercando un equilibrato bilanciamento. Vedremo se i riflessi economici di tale scelta politico-normativa potranno indurre anche l’altra sponda dall’Atlantico a interrogarsi su modi diversi e alternativi per proteggere il cosiddetto patrimonio immateriale aziendale. 


Fonte: SOLE24ORE