La Corte Territoriale, dopo essersi pronunciata su alcune questioni di natura meramente processuale, ha affrontato la questione di merito sottoposta al suo vaglio statuendo la fondatezza del motivo di appello in punto di richiesta di accertamento della nullità del patto di non concorrenza. Il Collegio, nella specie, nell'apparato motivazionale si è inizialmente soffermato sugli elementi istitutivi del patto di non concorrenza richiamando i cogenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità secondo cui il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo, poiché l'ampiezza del relativo vincolo deve essere tale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita. La valutazione circa la compatibilità del suddetto vincolo concernente l'attività con la necessità di non compromettere la possibilità di assicurarsi il riferito guadagno come pure la valutazione della congruità del corrispettivo pattuito costituiscono oggetto di apprezzamento riservato al giudice del merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato (cfr. per tutte Cass. n. 7835/06). Nel caso di specie, la durata era pari a 6 mesi dalla cessazione del rapporto, il limite territoriale era la Repubblica Italiana, il corrispettivo era pari 3.500 lordi annui oltre al 30% della retribuzione annua al momento della cessazione del rapporto. La Corte ha ritenuto nullo il patto alla luce delle seguenti motivazioni di “merito” ritenendo “eccessiva estensione territoriale dell'obbligo di non concorrenza, anche in relazione alla entità del compenso erogatole. Il vincolo imposto alla predetta è, infatti, di entità tale da incidere in misura consistente sulla possibilità di ricollocazione, poiché le preclude in modo pressoché totale di poter continuare ad operare in nel settore di spettanza (cioè, selezione e ricerca di personale) e questa significativa limitazione all'attività lavorativa non trova adeguata contropartita nella somma erogata, che appare oggettivamente sproporzionata rispetto al sacrificio impostole. Inoltre, è incontroverso - non essendo stata specificamente contestata la deduzione al riguardo (…) che l'attività esercitata da (di “Consultant”, ossia di promozione della conclusione di contratti di somministrazione di lavoro, di ricerca e selezione del personale e di fornitura di ogni altro servizio offerto dalla società, nonché di gestione di ogni aspetto relativo all'esecuzione dei predetti contratti”,….) fosse limitata a e ad alcune province della per cui non si comprendono le ragioni - o quanto meno non sono state chiarite dalla odierna appellata - di una così forte ampiezza territoriale del patto di non concorrenza a fronte del circoscritto ambito di zona in cui operava la citata lavoratrice. Deve pertanto, in accoglimento dell'appello ed in riforma della sentenza n. 2120/23 del Tribunale di Milano, essere dichiarata la nullità del patto di non concorrenza in oggetto.” La lavoratrice appellante aveva, altresì, sostenuto l'argomento secondo il quale l'azienda avrebbe posto in essere un comportamento fraudolento che si evincerebbe dalla consapevolezza di sottoporre ai propri dipendenti dei patti palesemente nulli. E ciò con la conseguenza che la società avrebbe corrisposto delle somme a titolo di corrispettivo del patto, pur essendo cosciente che nessuna somma sarebbe dovuta in considerazione del fatto che tali patti fossero tutti affetti da nullità. Pertanto, la tesi della lavoratrice insisteva sul fatto che, alla luce della natura fraudolenta di tale schema, i corrispettivi del patto erogati altro non erano se non trattamenti retributivi con la conseguenza che gli stessi, nonostante l'accertamento della nullità, non dovevano essere restituiti. Sul punto il Collegio non ha condiviso l'argomentazione della lavoratrice sulla scorta delle seguenti motivazioni mutuate da un caso analogo deciso in precedenza: “Non è invero persuasiva, al riguardo, la tesi della lavoratrice in forza della quale, pur accertata la nullità della clausola relativa al patto di non concorrenza, il compenso percepito sarebbe irripetibile in quanto costituisce ordinaria retribuzione. Sulla questione il Collegio richiama ex art. 118 disp. att. c.p.c., condividendone la motivazione, la pronuncia n. 1415/18 della Corte territoriale (Pres. Rel Casella), che ha esaminata una fattispecie in cui era stata stato sottoscritto un patto di non concorrenza del medesimo tenore letterale e perciò del tutto sovrapponibile alla presente: “Ribadisce questo Collegio che la lettura della clausola di cui si discute chiarisce come il versamento in tranche mensili dell'importo annuo pattuito, con previsione del pagamento dell'eventuale differenza, rispetto al 25% della retribuzione annua lorda al momento della cessazione del rapporto, nei trenta giorni successivi, configuri una mera modalità di pagamento frazionato del corrispettivo del patto di non concorrenza che non può incidere sulla natura dello stesso né la circostanza che si trattasse di un corrispettivo non congruo determina la sua riqualificazione in termini retributivi, incidendo solo sulla eventuale nullità del patto - peraltro ormai accertata - per violazione dell'art. 2125 c.c.” (conf. CA MI n. 2165/17; CA MI n. 1767/17). Si tratta quindi di una modalità di pagamento - frazionato - del corrispettivo, che in alcun modo viene a incidere sulla natura, retributiva o meno, dello stesso. Né può, poi, condividersi l'assunto della lavoratrice secondo cui l'erogazione di tale corrispettivo nasconderebbe un negozio in frode alla legge, non sussistendo alcun argomento di prova che lo supporti (non è certo circostanza sufficiente la sottoscrizione specifica della clausola del PNC e/o l'apposizione di identica clausola ad altro personale in forza alla società) ed essendo il tenore letterale della clausola contrattuale di non concorrenza del tutto inequivoco.” La decisione in commento si inserisce nel solco, ben definito, della giurisprudenza di merito del foro meneghino, per il quale la natura retributiva del corrispettivo del patto esige una prova particolarmente rigorosa e pertanto, di regola, dall'accertamento della nullità del patto di non concorrenza, discende il coerente obbligo di restituzione delle somme erogate nel tempo a tale titolo. Invero, tali somme, in ragione della nullità del patto che travolge tutti gli effetti che ha prodotto il contratto ex tunc, costituirebbero una percezione indebita. Si segnala ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano, 26 maggio 2021, n 1189 che respinge “l'assunto difensivo di parte resistente circa la natura retributiva della somma complessivamente percepita dal signor xx in corso di rapporto a titolo di corrispettivo del patto di non concorrenza (euro 113.851,58). Invero, la circostanza che il pagamento fosse mensilizzato nonché incidente sulla determinazione del TFR non è decisiva. Il resistente non ha allegato né provato, ad esempio, che il rateo rientrasse tra le erogazioni delle mensilità aggiuntive (tredicesima, quattordicesima mensilità) o che venisse corrisposto anche agli altri dipendenti del Gruppo, elementi che avrebbero deposto in favore della natura effettivamente retributiva dell'emolumento. La tesi del resistente non risulta dunque supportata da un quadro indiziario univoco e convincente, che consenta di superare il diverso tenore del regolamento contrattuale.” La sentenza, in un certo senso, “suggerisce” a contrario che la prova di determinate circostanze, interpretate alla luce dei principi sulla natura retributiva dei compensi, potrebbe determinare l'accertamento della natura retributiva del corrispettivo del patto di non concorrenza.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GF