Il crescente utilizzo dello smart working è accompagnato, soprattutto ora che è finito il regime emergenziale sperimentato durante la pandemia, da un’affermazione che ha assunto quasi le vesti di un dogma: il lavoro agile consente di accrescere la produttività delle persone e delle organizzazioni solo se è accompagnato da un cambio di paradigma. Secondo questo ragionamento, bisogna superare il modello del lavoro tradizionale, nel quale la prestazione è “misurata” attraverso parametri di tipo quantitativo come il tempo di lavoro, perché il fondamento del lavoro agile è, o almeno dovrebbe essere, completamente diverso: si basa sulla valutazione della qualità dei risultati ottenuti (rispetto agli obiettivi fissati in precedenza), senza che il tempo e la quantità di giornate che sono state necessarie per raggiungerli abbiano effettiva rilevanza. Un cambio di paradigma molto affascinante sul piano teorico e concettuale, che tuttavia sembra destinato ad andare a incontro a diverse difficoltà applicative, perché il nostro ordinamento del lavoro è saldamente ancorato alla misurazione dei parametri del tempo e della quantità del lavoro, proprio quegli elementi che, per far funzionare lo smart working, dovrebbero diventare secondari. Basta guardare un qualsiasi contratto collettivo nazionale di lavoro (ma anche lo stesso protocollo firmato dalle parti sociali nel 2021) per vedere che tutto il sistema di regole del lavoro è saldamente ancorato alla misurazione del tempo come meccanismo di gestione della prestazione. Come si concilia, ad esempio, con l’auspicato cambio di paradigma un orario di lavoro scandito da permessi, congedi, articolazione fissa dei giorni di attività? È chiaro che se fosse centrale solo il risultato, non ci sarebbe bisogno di stabilire orari rigidi e regole per assentarsi: sarebbe in capo al lavoratore l’intera gestione del tempo. Un conflitto ancora più forte tra aspettative e regole viventi lo troviamo analizzando la giurisprudenza. Una recente ordinanza della Corte di cassazione (10640/2024) ha ricordato qual è l’indirizzo assolutamente prevalente in tema di licenziamento per il cosiddetto “scarso rendimento”. La Suprema corte ha ricordato che tale licenziamento si verifica in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del dipendente (una forma di risoluzione per inadempimento, prevista dall’articolo 1453 e seguenti del Codice civile). La Corte, tuttavia, ha messo in guardia i datori di lavoro circa la concreta possibilità di utilizzare questo motivo per licenziare: si legge nell’ordinanza, infatti, che, nel contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un risultato, ma si limita a mettere a disposizione del datore le proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti dal contratto. Un’affermazione chiara ma molto problematica per chiunque voglia impostare un nuovo modello di gestione del lavoro ancorato ai risultati: secondo tale impostazione, infatti, il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento (lo dice con chiarezza la stessa ordinanza), giacché si tratta di lavoro subordinato e non dell’obbligazione di compiere un’opera o un servizio (lavoro autonomo). L’ordinanza ricorda che è possibile fissare dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore; il discostamento dai detti parametri può, quindi, costituire indice di non esatta esecuzione della prestazione, ma è molto improbabile che tale “esecuzione inesatta” possa giustificare un licenziamento. L’ordinamento non aiuta, quindi, quel processo evolutivo che sarebbe indispensabile per valorizzare le potenzialità dello smart working, ma questo non vuol dire che tale percorso sia impossibile da realizzare. Il tema ha natura, prima ancora che giuridica, manageriale, e quindi è ben possibile creare modelli di lavoro nei quali gli obiettivi diventano centrali nella valutazione del personale e nella gestione delle carriere; tuttavia, queste sperimentazioni dovranno scontare la fatica di svilupparsi dentro un ordinamento che sostanzialmente è ancorato a principi diversi e quasi opposti. C’è da chiedersi, allora, se non sia necessario che il legislatore e le parti sociali si impegnino per creare, per il lavoro agile, un ecosistema di regole nuove, capaci di accompagnare davvero la trasformazione del lavoro.
Fonte:SOLE24ORE