Lavoratori ora più tutelati se licenziati con il Jobs act

Lavoratori ora più tutelati se licenziati con il Jobs act

  • 10 Aprile 2024
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Oggetto di numerosi interventi correttivi a opera della Corte costituzionale, il Jobs act (Dlgs 23/2015) se confrontato oggi con il suo assetto originario appare completamente trasformato, per non dire sostanzialmente demolito. È di solo due mesi fa l’ennesima decisione (sentenza 22/2024) con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale, limitatamente alla parola «espressamente», la parte in cui prevedeva che il datore di lavoro fosse tenuto a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in caso di «nullità del licenziamento perché discriminatorio…, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge». Dall’abrogazione di tale avverbio è derivata una formulazione della norma tale per cui il regime del licenziamento nullo è oggi lo stesso sia nel caso in cui la disposizione imperativa violata contenga l’espressa - e testuale - sanzione della nullità, sia nel caso in cui la nullità non sia espressamente prevista come sanzione. E ciò in quanto, secondo la Corte costituzionale, la distinzione tra «nullità espresse e nullità che tali non sono» non poteva ricondursi al criterio di delega contenuto nella legge 183/2014, tanto più guardando all’aporia normativa che - in caso di diverso approdo - avrebbe lasciato prive di regime sanzionatorio «fattispecie di licenziamenti nulli privi della espressa (e testuale) previsione della nullità».  Certamente, però, la più importante sentenza della Corte costituzionale sul Jobs act risale al 2018. Con la pronuncia 194, infatti, è stato smantellato l’architrave del meccanismo di determinazione dell’indennità dovuta in caso di licenziamenti privi di giusta causa o di giustificato motivo, intervenendo nella parte in cui stabiliva un rigido automatismo fondato sul solo parametro dell’anzianità di servizio (indennità pari a due mensilità per ogni anno). In tal modo é stato modificato radicalmente il sistema delle tutele economiche previste dal Jobs act. Secondo la Corte, il parametro prescelto, infatti, in quanto uniforme per tutti i dipendenti a prescindere dalla loro particolare situazione personale, non era in grado né di garantire un «personalizzato» e «adeguato» ristoro del danno effettivamente patito né di costituire «adeguato» strumento di dissuasione per il datore di lavoro dal commettere l’illecito. Per effetto di tale pronuncia, l’importo dell’indennità risarcitoria non è più predeterminato in modo fisso dalla legge, ma demandato a una valutazione discrezionale del giudice, all’interno di un range che va da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità della retribuzione per le aziende con più di 15 addetti. La sentenza 194/2018 ha inciso anche sul meccanismo di determinazione dell’indennità dovuta in caso di vizi formali o procedurali del licenziamento, portando coerentemente all’abrogazione, con la sentenza della Consulta 150/2020, del parametro dell’anzianità di servizio. Di conseguenza, anche in questo caso, l’importo dell’indennità risarcitoria è oggi demandato a una valutazione discrezionale del giudice, all’interno di un range che va da un minimo di 2 a un massimo di 12 mensilità della retribuzione. Le pronunce del 2018 e del 2020 hanno avuto effetto, inevitabilmente, anche sul calcolo dell’indennità dovuta al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato da parte di datori di lavoro di minori dimensioni, in ragione del rinvio esplicito contenuto nell’articolo 9 alle norme riguardanti le aziende più grandi (qui il dettaglio delle modifiche).  Nessun intervento della Corte costituzionale si è avuto, invece, riguardo all’articolo 3, comma 2, del Jobs act che prevede la tutela reintegratoria – quanto al licenziamento disciplinare - nelle sole ipotesi «in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore». Questa previsione ha, nei fatti, direttamente affrontato il contrasto interpretativo intervenuto sull’espressione «insussistenza del fatto contestato» contenuta nell’articolo 18, comma 4, primo periodo, dello statuto dei lavoratori. Il Jobs act - attraverso l’impiego dell’aggettivo «materiale» – ha aderito, infatti, all’orientamento giurisprudenziale, peraltro minoritario, secondo cui il fatto della cui esistenza o meno si tratta è «da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato» (Cassazione 23669/2014). La limitazione, a opera dell’articolo 3, comma 2, della tutela reale esclusivamente alle ipotesi sopra ricordate differenzia il Jobs act, con riguardo alle conseguenze sanzionatorie della violazione dell’obbligo di repêchage, dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che, al contrario, prevede tuttora che il giudice, ove venga accertata l’illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, possa applicare la tutela reintegratoria. È evidente come si sia trattato, in tutti i casi, di pronunce di elevato impatto sociale che, nei fatti, hanno ampliato o, comunque, rafforzato, le tutele dei lavoratori in caso di licenziamento nullo o illegittimo, e che hanno finito per riattribuire al giudice del lavoro un’ampiezza discrezionale (6-36 mensilità) di cui, paradossalmente, non gode nel regime sanzionatorio previsto dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.


Fonte: SOLE24ORE