Licenziamento illegittimo del lavoratore nei gruppi societari

Licenziamento illegittimo del lavoratore nei gruppi societari

  • 28 Novembre 2023
  • Pubblicazioni
La Cassazione, con la pronuncia 14 novembre 2023 n. 31593, ha rigettato il ricorso di tre società che avevano licenziato una dipendente per GMO. La Corte prevede che le tutele dei lavoratori valgono anche nei gruppi societari. Se emergono collegamenti sostanziali tra aziende formalmente autonome, queste devono rispondere in solido delle obbligazioni verso i dipendenti. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è una forma di licenziamento che il datore di lavoro può utilizzare quando si verificano delle ragioni che riguardano l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento. Queste ragioni devono essere oggettive, cioè indipendenti dalla volontà e dalla condotta del lavoratore e devono essere dimostrate con elementi concreti e verificabili. Inoltre, il datore di lavoro deve rispettare una procedura specifica, che prevede la comunicazione scritta al lavoratore dei motivi del licenziamento, il rispetto di un termine di preavviso e, se previsto, la consultazione dei sindacati o della commissione di conciliazione. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non può essere effettuato se il datore di lavoro ha la possibilità di ricollocare il lavoratore in un altro settore aziendale, compatibilmente con le sue qualifiche e competenze. Tale obbligo si chiama repechage e serve a tutelare il lavoratore da licenziamenti ingiustificati o discriminatori. Se il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non rispetta questi requisiti, il lavoratore può ricorrere al giudice del lavoro e chiedere la sua annullabilità o la sua conversione in un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. In questo caso, il lavoratore ha diritto a una tutela reale o obbligatoria, che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di un'indennità risarcitoria, oppure a una tutela indennitaria, che prevede il pagamento di un'indennità commisurata al danno subito. La vicenda giudiziaria di una ex dipendente licenziata ingiustamente è emblematica di come la magistratura possa intervenire a tutela dei lavoratori. Dopo un'estenuante battaglia legale, la donna ha ottenuto dalla Cassazione la conferma della sentenza d'appello che ne disponeva la reintegrazione nel posto di lavoro. Il suo caso dimostra l'importanza di non arrendersi di fronte a un licenziamento per motivo oggettivo che appare immotivato o pretestuoso. La Corte ha analizzato in profondità le circostanze addotte dall'azienda, smontandole una per una. Ha ravvisato irregolarità procedurali, omissioni e contraddizioni tali da rendere illegittimo il recesso dal contratto. La vicenda ha inizio nel luglio 2016, quando l'azienda comunica il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ad una dipendente addetta alla cassa di un'officina. La motivazione addotta è la soppressione del posto di lavoro, ma la lavoratrice non ci sta e fa ricorso denunciando l'illegittimità del provvedimento. Sostiene che si tratti in realtà di un licenziamento discriminatorio, solo mascherato da esigenze organizzative. Inoltre contesta l'incompletezza della lettera di recesso, che non specifica in modo chiaro le ragioni poste a fondamento. Un vizio procedurale che potrebbe già di per sé rendere nullo il licenziamento. Ma la dipendente va oltre, mettendo in discussione l'intera struttura societaria. L'azienda fa parte di un gruppo con altre due società controllate, che di fatto costituiscono un unico datore di lavoro. Quindi la soppressione del posto appare un mero pretesto, volto in realtà a liberarsi di un lavoratore scomodo. Inizia così un intricato iter giudiziario, che dal Tribunale approda fino in Cassazione. Una vicenda emblematica di come le vere motivazioni di un licenziamento possano essere ben diverse da quelle formali. In primo grado, il Tribunale di Napoli aveva emesso una sentenza solo parzialmente favorevole alla lavoratrice. Da un lato, aveva rigettato la tesi dell'esistenza di un unico datore di lavoro, ritenendo le tre società pienamente autonome. Dall'altro però, il giudice aveva ravvisato una violazione del principio di conservazione del rapporto di lavoro. In concreto, le mansioni della dipendente non erano state eliminate, ma semplicemente affidate a un altro lavoratore. Questa circostanza configurava un evidente abuso dello strumento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Pertanto il Tribunale, pur respingendo alcune argomentazioni della ricorrente, ne aveva accolto la richiesta principale: l'annullamento del recesso e la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al pagamento di 15 mensilità a titolo di risarcimento. Una sentenza che, tra luci e ombre, confermava la necessità di vigilare con attenzione sull'utilizzo distorto dell'istituto del licenziamento, a scapito dei diritti fondamentali del lavoratore. In secondo grado, la Corte d'Appello di Napoli accoglie pienamente le argomentazioni della lavoratrice. Attraverso un'analisi meticolosa di numerosi elementi di prova, i giudici giungono alla conclusione che le tre società costituiscano di fatto un unico soggetto giuridico. Condividono la stessa sede, le stesse strutture, gran parte del management e soprattutto una fitta rete di partecipazioni societarie. Tale complessa architettura societaria cela in realtà un unico centro decisionale, volto probabilmente ad eludere precisi obblighi normativi in materia di rapporti di lavoro. Di conseguenza, le tre aziende devono considerarsi un unico datore di lavoro ai fini del licenziamento in questione. Inoltre, emerge con chiarezza come la soppressione del posto sia solo un pretesto: le mansioni della dipendente licenziata sono state di fatto riassegnate ad un collega. Alla luce di queste considerazioni, la Corte d'Appello stabilisce giustamente la piena illegittimità del licenziamento e ordina la reintegrazione della lavoratrice, oltre al pagamento di un sostanzioso risarcimento. Le società coinvolte hanno presentato ricorso alla Corte di Cassazione, sollevando tre questioni principali:
la legittimità del licenziamento;
l'accertamento del collegamento tra le società;
l'entità dell'indennità risarcitoria.
I giudici di legittimità respingono le loro richieste, confermando il verdetto d'Appello. Sul licenziamento, le argomentazioni delle società appaiono deboli e non supportate da motivazioni solide. Pretestuose contestazioni su valutazioni fattuali della Corte territoriale, che invece ha analizzato in profondità le circostanze, smascherando le reali ragioni del recesso. Quanto ai rapporti societari, anche qui le doglianze sono ritenute infondate. La Corte d'Appello non si è basata solo su elementi formali, ma ha ricostruito in concreto l'esistenza di un unicum imprenditoriale, al di là delle parvenze giuridiche. Infine sull'indennizzo la Cassazione precisa un principio importante a tutela dei lavoratori: il limite di 12 mensilità vale in caso di reintegra, non per il risarcimento. Qui il giudice ben può riconoscere importi maggiori in base al pregiudizio subito. In definitiva, pronunciandosi in questi termini, la Suprema Corte erige un solido muro a difesa dei diritti dei prestatori di lavoro. Respinge i tentativi del datore di sottrarsi alle proprie responsabilità dietro schermi societari e formalismi legali. Riafferma il primato della sostanza sulla forma. Un monito a un certo modo di fare impresa, che cerca escamotage per liberarsi del “fattore umano” quando scomodo. Ma la legge non ammette scorciatoie. La sentenza della Corte di Cassazione conferma la tutela dei diritti dei lavoratori in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiedendo ai datori di lavoro di dimostrare concretamente le ragioni che giustificano la soppressione del posto di lavoro e di valutare la possibilità di ricollocare il dipendente in altre mansioni. Inoltre, la sentenza sancisce un principio fondamentale: le tutele valgono anche nei gruppi societari. Se emergono collegamenti sostanziali tra aziende formalmente autonome, queste devono rispondere in solido delle obbligazioni verso i dipendenti. È una barriera contro eventuali manovre che scaricano i costi del personale “scomodo” su entità satelliti. In sintesi, la Cassazione alza un argine contro ogni possibile prevaricazione o discriminazione ai danni del contraente debole. Riafferma che nessun formalismo può prevalere sui diritti inviolabili della persona che lavora. Un monito a certi modelli imprenditoriali che vedono nel dipendente solo un ingranaggio sacrificabile. La legge sta dalla parte dell'uomo!


Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL