Sul licenziamento incide anche la non rioccupabilità
- 20 November 2023
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Risulta ormai consolidato in giurisprudenza il principio per cui in caso di rifiuto, da parte del dipendente, della trasformazione del proprio rapporto di lavoro da part-time a full-time e viceversa o, comunque, più in generale, di una qualsiasi variazione relativa alla distribuzione del proprio orario di lavoro, il recesso di parte datoriale può ritenersi legittimo soltanto qualora non sia stato intimato a causa del suddetto rifiuto ma, piuttosto, in ragione della sussistenza di «esigenze economico-organizzative, in base alle quali la prestazione oraria precedente non può più essere mantenuta» (si veda anche il Sole 24 Ore del 26 ottobre scorso). Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con ordinanza 30093 del 30 ottobre 2023, in relazione a una fattispecie in cui una lavoratrice era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo a seguito del diniego opposto dalla stessa alla modifica della collazione del proprio orario di lavoro part-time propostole dalla società datrice di lavoro. La Corte di merito, confermando la sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda di impugnazione del licenziamento promossa dalla lavoratrice, e ciò sulla base, tra l’altro, dell’asserita riferibilità del divieto di licenziamento di cui alle «norme di legge e collettive» indicate in ricorso alle sole ipotesi di licenziamento per giustificato soggettivo; nel caso di specie, invece - secondo i giudici di merito - la ragione sottesa al licenziamento era da rintracciarsi in una «riorganizzazione aziendale tale da non rendere più utilizzabile la prestazione della odierna ricorrente» e, come tale, rientrante nel cosiddetto giustificato motivo oggettivo. La decisione, pertanto, veniva impugnata dalla lavoratrice dinnanzi alla Corte di legittimità. La Cassazione, pur esimendosi espressamente dal sindacare l’effettività della causale organizzativa addotta dalla società, si preoccupa di far chiarezza sul tema del difficile equilibrio tra il divieto di licenziamento del lavoratore che rifiuta una qualsiasi variazione oraria protetta dalla legge e «l’eventuale insorgenza del giustificato motivo provocato da tale rifiuto, che potrebbe consentire un licenziamento per ragioni oggettive». In tali ipotesi, sottolinea la Suprema Corte, al fine di assicurare il contemperamento dei rispettivi interessi delle parti, occorre, da un lato, che il rifiuto del lavoratore non diventi, in automatico, presupposto del suo licenziamento ma, piuttosto, che il datore di lavoro dimostri non solo la sussistenza delle esigenze economico-organizzative ma anche il nesso causale tra le predette esigenze e il licenziamento; dall’altro, che alla data del recesso non esistano «ulteriori soluzioni occupazionali (o altre alternative orarie)” da utilmente prospettare al lavoratore. Nel caso di specie, conclude la Cassazione, il licenziamento intimato alla ricorrente non risulta essere rispondente ai principi sin qui richiamati, e ciò in quanto «nulla si dice […] in ordine al fatto che, oltre a non potersi mantenere lo schema dell’orario precedente, non [esiste, ndr] un altro orario diverso che [possa, ndr] essere offerto come alternativa al licenziamento», in violazione dell’obbligo di repêchage posto a carico del datore di lavoro che decida di procedere al licenziamento individuale per «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Di qui la cassazione della sentenza di appello e il rinvio della causa per una nuova valutazione basata su tali principi.
Fonte: SOLE24ORE