Quando lo spostamento del dipendente è funzionale alla prestazione anche il tragitto dal luogo di residenza a quello di lavoro deve essere retribuito come orario lavorativo a tutti gli effetti. La Cassazione, con la pronuncia del 21 settembre 2023 n. 27008, ha dichiarato illegittimo l’accordo aziendale nella parte in cui aveva introdotto un periodo di franchigia a carico dei lavoratori. Per comprendere la portata della decisione della Suprema Corte è necessario partire dalla più che nota vicenda relativa alla retribuibilità, o meno, dei tempi di vestizione dei dipendenti, già oggetto di diversi interventi da parte dei giudici di legittimità ma anche da parte del Ministero del lavoro. Prima di tutto, non esiste una disciplina specifica sul tema. Il diritto alla retribuzione in questi casi, infatti, è frutto di una lunga e consolidata prassi giurisprudenziale e amministrativa secondo la quale il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio rientra nell’orario di lavoro ogniqualvolta sussista l’eterodirezione della parte datoriale ovvero quando quest’ultima abbia fornito al lavoratore determinati indumenti, con il vincolo di tenerli e indossarli sul posto di lavoro. Sul punto si possono leggere Cass. 7.6.2021, n. 15763, Cass. 9.4.2019, n. 9817 e anche Cass. 28.3.2018, n. 7738. In estrema sintesi, la posizione della Corte in questi casi è la seguente: nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio ("tempo-tuta") costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo. In secondo luogo, ha confermato questa posizione anche l’interpello al quale ha risposto il Ministero del lavoro, n. 1 del 23 marzo 2020 poggiando la propria linea su quanto stabilito dal D.lgs. 66/2003 che definisce orario di lavoro “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue funzioni”. Nel caso in cui il datore di lavoro ha fornito al lavoratore determinati indumenti, con il vincolo di tenerli e indossarli sul posto di lavoro, il tempo necessario alla vestizione e svestizione rientra nel concetto di orario di lavoro (essendoci l’eterodirezione) e come tale va computato e retribuito. Richiamata anche dal Ministero del lavoro è la sentenza della Corte di Giustizia UE 10 settembre 2015, causa C-266/14, nella quale si afferma che non costituisce orario di lavoro solo il periodo di tempo che i lavoratori (dipendenti) possono gestire in modo autonomo, dedicandosi ai propri interessi, da intendersi in senso ampio: dunque un richiamo ulteriore alla eterodirezione che rappresenta il discrimen per il riconoscimento della retribuzione. Pertanto, anche sulla scorta della decisione della Corte UE, tutte le volte che il dipendente è tenuto (per vincolo contrattuale) a seguire le istruzioni o le procedure datoriali, si configura tempo di lavoro a tutti gli effetti, comprendendo in tale categoria anche l’utilizzo dei dispositivi di protezione personale (l’interpello al Ministero del lavoro, infatti, è in piena esplosione della pandemia da Covid19); volendo quindi ricapitolare, la retribuibilità segue queste due distinte regole:
- se il lavoratore ha facoltà di scegliere il tempo e il luogo dove indossare la divisa aziendale (ad esempio presso la propria abitazione prima dell’inizio della giornata lavorativa), tale attività rientra tra quelle preparatorie allo svolgimento della prestazione lavorativa e dunque non va retribuita;
- se è la parte datoriale a disciplinare tempo e luogo dell’attività di vestizione (eterodirezione), la stessa è considerata quale orario di lavoro e pertanto andrà retribuita secondo le previsioni del contratto collettivo applicato. Nel caso che interessa questo commento la Suprema Corte è intervenuta, confermandola, sulla questione sollevata dall’azienda rispetto alla sentenza della Corte d’Appello di Ancona che aveva dichiarato illegittimo l’accordo collettivo aziendale nella parte in cui prevedeva un periodo di franchigia (di 15 o 30 minuti) a carico dei lavoratori, per la copertura dei tempi di spostamento dal domicilio (o dalla sede aziendale) al luogo di primo intervento presso un cliente, ed il ritorno, sottraendo tale tempo al computo dell’orario di lavoro; secondo la Corte territoriale, e poi confermata tale interpretazione anche dalla Cassazione, il “periodo trascorso dai lavoratori a bordo dell’auto aziendale per recarsi nel luogo di primo intervento e per tornare alla sede aziendale al termine dell’ultimo” integra gli estremi della prestazione etero diretta “prodromica allo svolgimento dell’attività lavorativa” e come tale comporta il diritto del lavoratore al pagamento della retribuzione. L’azienda, dunque, è stata condannata al pagamento delle differenze retributive, calcolate nei 30 o 60 minuti in più impiegati dai lavoratori, anche con le dovute maggiorazioni ove rientranti nello straordinario. La Suprema Corte si è allineata all’orientamento costante della giurisprudenza che si è richiamato, legando la decisione al concetto di controllo della prestazione da parte del datore di lavoro. Dunque, gli spostamenti (obbligatori) dei lavoratori, per recarsi dai clienti, rappresentano lo strumento necessario per la corretta esecuzione della prestazione di lavoro; durante tale periodo di tempo, individuato in un lasso di tempo variabile dai 30 ai 60 minuti, i lavoratori non hanno libera disponibilità del proprio tempo e quindi sono a disposizione del datore; in tale contesto si inserisce la valutazione dell’accordo collettivo aziendale che la Cassazione ritiene di dover disapplicare nella parte in cui non prevede la possibilità di retribuire i lavoratori per il tragitto casa-lavoro, si legge quindi in motivazione che “…la Corte di merito ha accertato che, in base alla nuova organizzazione scaturente dai menzionati accordi collettivi, l’auto aziendale è utilizzabile solo per recarsi presso il richiesto luogo dell’intervento […] e che compete alla società stabilire (o modifica) il luogo del primo e dell’ultimo intervento, sicchè non si comprenderebbe perché tale tempo non debba essere considerato tempo di lavoro”. La Cassazione, dunque, ritiene che il datore di lavoro si avvantaggi di accordi collettivi che consentano di “spostare” la destinazione dei lavoratori a seconda delle esigenze organizzative o delle richieste dei clienti ma che proprio tale situazione configura una “messa a disposizione” dei dipendenti che, pertanto, devono essere retribuiti per tutto il percorso che osservano nel recarsi dai clienti partendo dalla propria abitazione “cosi come era (pacificamente) considerato quello impiegato per raggiungere il luogo dell’intervento dopo aver timbrato il cartellino in azienda”. Per altro tale “etero direzione” si conferma, nel caso di specie, anche dall’utilizzo di uno strumento di timbratura da remoto che rafforza il controllo da parte del datore.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL