La Cassazione, con ordinanza n. 26993 del 21 settembre 2023, si è pronunciata sul licenziamento per superamento del comporto, stabilendo che il lavoratore ha diritto a recuperare le ore non godute e che il datore di lavoro deve motivare il licenziamento. La sentenza bilancia esigenze di tutela della salute del lavoratore con interessi organizzativi dell’azienda. Le ore di comporto rappresentano un elemento fondamentale nel mondo del lavoro, fungendo da salvagente per il lavoratore che si trova ad affrontare un periodo di malattia o in seguito a un infortunio. Queste ore rappresentano, in sostanza, il totale delle ore di assenza che un dipendente può accumulare senza rischiare il licenziamento. La tutela offerta dalle ore di comporto, tuttavia, non è illimitata. Il numero di ore consentite è infatti definito in modo specifico all'interno di ogni Contratto Collettivo di Lavoro, e varia a seconda di fattori come l'anzianità del lavoratore e le mansioni svolte. Una volta che un dipendente raggiunge questo limite, noto come soglia di comporto, il datore di lavoro ha la facoltà di procedere con il licenziamento. Esiste però una significativa eccezione a questa regola. Nel caso in cui la malattia del dipendente sia stata causata da condizioni igienico-sanitarie inadeguate all'interno dell'azienda, o da un grave incidente sul posto di lavoro, la responsabilità ricade sul datore di lavoro. In queste circostanze, il datore di lavoro non può attribuire la colpa al dipendente per la propria negligenza o incuria. Per tutte le altre malattie o infortuni, che vanno da un semplice raffreddore a una lombalgia, è fondamentale non superare il limite di ore di comporto concesso. Ogni giorno di assenza oltre il limite consentito può avvicinare il lavoratore al precipizio del licenziamento. Pertanto, ogni giorno di convalescenza in più diventa un passo verso l'eventualità di perdere il proprio posto di lavoro. Questo sistema, pur essendo pensato per equilibrare i diritti dei lavoratori con le necessità delle aziende, può mettere i lavoratori in una posizione di vulnerabilità, specialmente in caso di malattie o infortuni prolungati. Ecco perché è fondamentale per ogni lavoratore informarsi e comprendere bene i termini del proprio Contratto Collettivo di Lavoro e le implicazioni delle ore di comporto. Ma quante possibilità ha davvero un dipendente di sfuggire al licenziamento dopo aver esaurito le proprie ore di comporto? A provare a rispondere a questo interrogativo è stata una recente ordinanza della Cassazione, che ha acceso un faro su uno dei casi più spinosi del diritto del lavoro. Protagonista un impiegato veneto, congedato dall'azienda (una casa di cura privata) per superamento del periodo di malattia retribuita. L'uomo però non si è arreso e ha fatto causa, chiedendo di recuperare le ore accumulate e mai godute negli anni precedenti, come previsto dal suo Contratto Nazionale. La controparte si è opposta, sostenendo che solo il datore di lavoro può autorizzare il recupero. In primo grado, il giudice ha sostenuto la posizione del dipendente, prescrivendo all'impresa non solo di reintegrarlo nel suo posto di lavoro, ma anche di risarcirlo per le perdite subite. Tuttavia, questa vittoria si è rivelata di breve durata, poiché in Appello è arrivata una decisione del tutto inattesa e sgradita. I giudici hanno infatti ribaltato la sentenza di primo grado, confermando il licenziamento del lavoratore. Di fronte a tale esito, è stato necessario l'intervento della Suprema Corte di Cassazione, la quale ha rilevato un'errata interpretazione del contratto di lavoro da parte dei giudici d'appello, mettendo così nuovamente in discussione l'intera vicenda. Secondo la sentenza degli Ermellini, il recupero delle ore di comporto rappresenta un diritto inalienabile del lavoratore e non una concessione discrezionale dell'azienda. Con questa decisione, la Corte di Cassazione ha rinviato il caso al tribunale di Venezia per un nuovo processo. Questo episodio rappresenta l'ennesima battaglia legale che mette in risalto l'incertezza e la complessità nell'equilibrio tra i diritti dei dipendenti e il potere decisionale del management aziendale. La Cassazione ha cercato di tracciare un percorso chiaro attraverso questa intricata questione, che tuttavia è ancora lontana dall'essere risolta definitivamente. Il caso in oggetto mostra quanto sia vitale per i lavoratori conoscere e comprendere i propri diritti contrattuali e come queste questioni possano avere implicazioni significative per le loro carriere. La partita, come si suol dire, è ancora aperta. La decisione della Suprema Corte ha aperto uno squarcio nel delicato equilibrio tra diritti dei lavoratori e prerogative datoriali. Da una parte infatti sancisce in modo inequivocabile la facoltà di recuperare le ore di assenza non godute, purché nei termini contrattuali. Un assist fondamentale per chi, a causa di gravi malattie, si è visto erodere l'intera quota di permessi retribuiti. Dall'altra impone alle aziende di giustificare ogni licenziamento per superamento del comporto, valutando caso per caso condizioni di salute e necessità produttive. Un vincolo che mal si concilia con le logiche di profitto e che, secondo gli imprenditori, rischia di alimentare un'eccessiva conflittualità. Ad avviso di molti esperti, la pronuncia della Cassazione finisce per scaricare sui giudici l'onere di trovare volta per volta un punto di equilibrio. Un compito assai arduo, che richiederà sensibilità e spirito di mediazione. Non a caso in dottrina c'è già chi invoca un intervento legislativo per definire criteri più chiari ed evitare disparità di trattamento. Resta poi irrisolto il nodo della prevenzione. La sentenza tutela a posteriori il lavoratore malato, ma nulla dice su come ridurre i rischi per la salute. Andrebbero probabilmente potenziati gli investimenti in sicurezza e gli sforzi per limitare le patologie professionali. Solo agendo sulle cause, e non solo sugli effetti, si può sperare di ridurre il contenzioso.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL