La Cassazione con la sentenza 19621 del 11 luglio 2023 conferma l'illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore per aver criticato il proprio datore di lavoro nel ricorso giudiziale diretto al riconoscimento di differenze retributive. Tutto nasce dal ricorso intentato da un lavoratore che aveva convenuto in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere delle somme a titolo di differenze retributive. A seguito di questo, il datore di lavoro chiamato in causa, ritenendo che il proprio dipendente avesse inserito nel ricorso giudiziale gravi accuse nei confronti della società e dei superiori gerarchici, aveva instaurato nei confronti del dipendente un procedimento disciplinare che si era concluso con il licenziamento di quest'ultimo per giusta causa. Il giudizio di impugnazione del licenziamento, che ha seguito il rito Fornero, ha dato in senso unanime ragione al lavoratore che sia in fase sommaria che nei due gradi di merito successivi ha visto riconosciuta l'illegittimità del provvedimento espulsivo ed ottenuto la reintegra ai sensi dell'art. 18, c. 4, Statuto dei Lavoratori. I giudici, che si sono occupati della vicenda, hanno ritenuto applicabile al caso in esame l'esimente prevista dall'art. 598, c. 1, c.p., con riguardo alle offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all'Autorità giudiziaria, quando le offese concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo. Il dipendente, quindi, laddove il proprio intento sia esclusivamente quello di sostenere le proprie tesi difensive, non appare punibile, nemmeno sotto l'aspetto disciplinare ed il conseguente licenziamento va dichiarato illegittimo. Con il ricorso in Cassazione che ha dato origine alla Sentenza in commento, il datore di lavoro ha sollevato molteplici motivi di censura inerenti diversi aspetti della vicenda, in particolare evidenziando come la critica mossa dal lavoratore nel proprio ricorso per differenze retributive fosse consapevolmente e dolosamente eccedente rispetto ai fini del giudizio e quindi come lo stesso sia incorso nel reato di calunnia, con conseguente esclusione dell'applicabilità dell'esimente di cui all'art. 598 c.p. Disciplinato dall''art. 368 c.p., il reato in questione individua la condotta di chi presenti denuncia, querela, richiesta o istanza diretta all'Autorità giudiziaria o ad un'altra Autorità che a quella abbia l'obbligo di riferire, addebitando un fatto costituente reato ad un soggetto che egli sa essere innocente. Secondo l'orientamento della Cassazione il dolo nel reato di calunnia è ravvisabile quando colui che accusa falsamente un'altra persona di un reato abbia la certezza dell'innocenza dell'incolpato. Ed infatti, nel reato in questione non può ritenersi ravvisabile l'elemento soggettivo nella forma del dolo eventuale e ciò in quanto la formula utilizzata dalla norma "taluno che egli sa innocente" è chiara e indica la necessità di una piena consapevolezza dell'innocenza dell'incolpato. L'erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l'elemento soggettivo che è integrato solo nel caso in cui vi sia una esatta corrispondenza tra momento rappresentativo (sicura conoscenza della non colpevolezza dell'accusato) e momento volitivo (intenzionalità dell'incolpazione). La consapevolezza del denunciante in merito all'innocenza dell'accusato è esclusa qualora la supposta illiceità del fatto denunziato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi e seri tali da ingenerare dubbi condivisibili da parte di una persona, di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza. L'altro aspetto giuridico che viene in evidenza nella sentenza in commento riguarda il diritto di critica del lavoratore, il cui esercizio nei confronti del datore di lavoro deve rispettare i limiti di continenza formale ed il cui superamento integra comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro e può costituire giusta causa di licenziamento. Il superamento dei limiti di continenza e pertinenza stabiliti per un esercizio lecito della critica rivolta dal lavoratore nei confronti del datore deve essere valutato dal giudice di merito, il quale, nella ricostruzione della vicenda posta alla sua attenzione, deve enucleare i fatti rilevanti nell'integrazione della fattispecie legale e motivare, rispetto a ciascuno di essi, circa il convincimento che tutti i predetti limiti siano stati rispettati, senza trascurare gli elementi che potrebbero avere influenza decisiva, nonché delineando l'iter logico che lo ha indotto a maturare detto convincimento. Nel corso del tempo la Cassazione ha avuto modo di esprimersi sul tema affermando come il contenuto della memoria difensiva depositata dal lavoratore per resistere in un giudizio instaurato nei suoi confronti dal datore di lavoro non integra una giusta causa che legittimi il suo licenziamento, sebbene tale atto utilizzi espressioni sconvenienti od offensive posto che queste sono soggette a cancellazione e possono dar luogo a risarcimento ex art. 89 c.p.c. Infatti, lo scritto in questione rappresenta un documento giudiziario riferibile all'esercizio del diritto di difesa, oggetto dell'attività del difensore tecnico, al quale si applica la causa di non punibilità stabilita dall'art. 598 c.p. per le offese contenute negli scritti presentati dinanzi all'Autorità giudiziaria quando concernano l'oggetto della causa. Un'applicazione del principio generale posto dall'art. 51 c.p. il quale individua la scriminante dell'esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, e che è applicabile anche alle offese rinvenibili negli atti difensivi del giudizio civile sempre che riguardino l'oggetto del processo in modo immediato e diretto e che siano funzionali rispetto alle argomentazioni svolte a sostegno della tesi prospettata o all'accoglimento della domanda proposta. Il Supremo Collegio, non discostandosi da analoghe controversie già decise in tal senso, ha stabilito quindi che non integra una giusta causa di licenziamento la condotta del lavoratore che attribuisca al proprio datore di lavoro, in uno scritto difensivo, atti o fatti, pur non rispondenti al vero, che riguardino in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia e ciò quandanche in tale scritto siano riportate espressioni sconvenienti od offensive che sono invece soggette alla disciplina dettata dall'art. 89 c.p.c.. L'assenza di finalità dirette a diffondere notizie idonee a screditare il datore di lavoro e la stretta connessione delle dichiarazioni con il diritto di difesa, come accertate dalle corti di merito, rappresentano inoltre un valido elemento tale da ampliare la portata dell'esimente di cui all'art. 598 c.p., in astratto non applicabile alle accuse calunniose contenute in tali atti, poiché la disposizione ricordata si riferisce esclusivamente alle offese. Appare dunque necessario porre molta attenzione ai commenti inseriti negli atti giudiziari e limitare questi nell'alveo del diritto di critica dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro, avendo accortezza affinché l'esposizione sia misurata, vi sia una sostanziale corrispondenza dei fatti alla verità, ancorché non in termini assoluti, evitando altresì di ledere il c.d. decoro datoriale. Per rimanere nell'alveo delle previsioni di cui all'art. 598, c. 1, c.p., sarà inoltre fondamentale mantenere la discussione in connessione stretta e diretta con l'oggetto del giudizio, senza toccare atti o fatti diversi e non rilevanti rispetto alla lite nel contesto della quale vengono effettuati.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL