La falsa attestazione della presenza giustifica il licenziamento

La falsa attestazione della presenza giustifica il licenziamento

  • 7 Agosto 2023
  • Pubblicazioni
Con la pronuncia del 20 luglio 2023 n. 21607 la Suprema Corte di Cassazione interviene in relazione ad una impugnativa del licenziamento per falsa attestazione della presenza in servizio, promossa da un lavoratore svolgente le mansioni di Comandante del Servizio di Polizia Locale. Al lavoratore, in particolare, era stato contestato l'allontanamento dal luogo di lavoro per motivi privati senza far risultare tale assenza mediante l'utilizzo del dispositivo marcatempo, condotta integrante la fattispecie di cui all'art. 55 quater, n. 1, lett. a) D.Lgs. 165/2001, cui era seguita la sanzione del licenziamento senza preavviso. Il ricorrente, nel sottoporre la vicenda all'attenzione del Giudice del lavoro competente, non aveva avanzato alcuna negazione fattuale delle circostanze contestate, ma aveva articolato la propria difesa sulla natura delle funzioni svolte che lo avrebbero dispensato dall'utilizzo del badge per documentare la presenza in ufficio, nonché sulla intervenuta assoluzione con formula piena in sede di udienza preliminare in ambito penale, per l'accertata insussistenza del fatto di reato ascrittogli per la medesima condotta. In ogni caso, il lavoratore aveva altresì evidenziato come nessun pregiudizio economico fosse stato arrecato al datore di lavoro, senza considerare inoltre come il luogo di lavoro non fosse il Municipio ma, per esigenze di servizio, l'intero territorio comunale e come, quale responsabile del servizio di protezione civile, lo stesso si fosse recato a casa ad utilizzare il proprio computer per conoscere tempestivamente le allerte diramate, attesa l'inaccessibilità del pc dell'ufficio. L'Ente datoriale aveva, quindi, contestato le considerazioni difensive addotte, sottolineando, in primo luogo, come il comportamento sanzionato dall'art. 55 quater fosse quello del pubblico dipendente che fa apparire di essere in servizio mentre, in realtà, è impegnato in attività estranee a quelle d'ufficio e/o è in luoghi diversi da quelli di operatività per dovere di ufficio (luoghi tra cui rientrava senza dubbio l'abitazione privata del lavoratore). In ogni caso, evidenziava il Comune come, anche qualora si fosse voluto dar credito alla tesi (inverosimile) della necessità di essersi recato presso l'abitazione per accedere al sito della protezione civile, non sarebbe comunque giustificato il mancato successivo ritorno in ufficio per svolgere le attività necessarie, essendo incontestabile che il lavoratore avesse scelto di rimanere a casa ben oltre il tempo necessario per l'accedere al sito. Parimenti irrilevanti dovevano, infine, ritenersi le circostanze del rispetto dell'orario minimo di lavoro e dell'invocata considerazione della rilevanza della sentenza penale di proscioglimento, in nome del principio di autonomia tra procedimento penale e procedimento disciplinare. Ebbene, sia in primo che in secondo grado, i Giudici di merito avevano disposto il rigetto del ricorso del lavoratore, illustrando le ragioni dell'impossibilità di accoglimento del costrutto attoreo. In primo luogo, invero, era stato sottolineato come la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in udienza preliminare non fosse ostativa al giudizio disciplinare, non essendo comunque preclusa una diversa valutazione dei fatti in ambito lavorativo, con il solo limite dell'immutabilità dell'accertamento svolto sul piano materiale in sede penale. La contestazione disciplinare in esame aveva, infatti, ad oggetto la condotta del lavoratore che, uscito dalla sede della polizia senza timbrare, si era recato ripetutamente nella propria abitazione senza fare uso del badge e senza rientrare successivamente in ufficio. Doveva, pertanto, ritenersi integrata la fattispecie contestata di falsa attestazione in ordine alle registrazioni in entrata e in uscita, così come sancita dall'art. 55 quater D.Lgs. 165/2001, in quanto la condotta descritta dalla norma si compendia nell'allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza economicamente apprezzabili, così da indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro. La sanzione espulsiva adottata dall'Ente datore di lavoro veniva, pertanto, considerata in sede giudiziale fondata ed altresì proporzionata, in ragione della gravità dei fatti sistematicamente reiterati e della loro incidenza sull'elemento fiduciario del rapporto, anche alla luce del ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore. L'ex comandante della Polizia municipale decideva, comunque, di sottoporre il caso all'attenzione della Suprema Corte. Il massimo organo della Nomofilachia, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, parte dall'assunto per cui la fattispecie di cui all'art. 55 quater D.Lgs. 165/2001 viene integrata dalla condotta di assenza intermedia dal luogo di lavoro fra le timbrature di entrata ed uscita, circostanza che certamente sussiste nel caso di specie, come accertato sul piano fattuale dal giudice di merito. Non appare, dunque, in tal senso condivisibile la giustificazione addotta dal ricorrente in merito alla possibilità di eseguire la prestazione anche al di fuori dall'ufficio ovvero dalla propria abitazione, in ragione delle mansioni svolte. Tale circostanza, invero, anche qualora validata, non varrebbe di per sé ad escludere che il lavoratore fosse comunque tenuto ad utilizzare il contrassegno marcatempo, dovendo egli rispettare un orario minimo e dovendo in ogni caso egli giustificare perché, in concreto, avesse scelto di lavorare da casa invece che presso la sede di servizio. L'assorbenza e la dirimenza della mancata autorizzazione allo svolgimento dell'attività lavorativa presso l'abitazione del ricorrente, dunque, comportava, a cascata, l'irrilevanza di qualsivoglia esigenza di prova o dimostrazione circa l'effettiva prestazione di attività lavorativa presso la propria dimora da parte del lavoratore. Corretto anche il giudizio di proporzionalità espresso dalla Corte, non solo in ordine alla reiterazione delle condotte ma anche con particolare riferimento alla lesione dell'elemento fiduciario per il rilevante ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore, mentre risulta infondato, invece, il motivo di censura del lavoratore, che postula la valutazione in ordine alla valenza nel procedimento disciplinare dell'accertamento svolto in sede penale. Viene al riguardo in rilievo la questione dell'applicabilità o meno dell'art. 653 c.p.p., considerato che la sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto emessa in sede di udienza preliminare non appare tecnicamente suscettibile di inquadramento nella categoria della “sentenza penale irrevocabile di assoluzione”, cui l'art. 653 c.p.p. riconosce efficacia di giudicato in sede disciplinare. Ed invero, il minor grado di stabilità “relativa” che ne caratterizza l'efficacia preclusiva rebus sic stantibus, potendo la sentenza di non luogo a procedere essere revocata in determinati casi come previsto dall'art. 434 c.p.p., non consente di ricondurre la pronuncia di proscioglimento de quo al paradigma di “irrevocabilità” tipico della fattispecie disciplinata dalla richiamata disposizione con effetto di giudicato esteso all'ambito disciplinare. Né tale differenza “ontologica” fra la sentenza di non luogo a procedere e quella di proscioglimento irrevocabile potrebbe essere colmata dalla asserita “ratio” della disposizione, per come dedotto dal ricorrente, atteso che l'accertamento, in quella sede, di fatti positivi che valgono ad escludere la sussistenza dell'addebito, non è trasportabile ex sé ed in modo automatico nell'autonomo ambito disciplinare, in cui rileva il diverso profilo della gravità dei fatti sistematicamente reiterati e della loro incidenza sull'elemento fiduciario del rapporto, anche alla luce del ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore. Da qui, l'esito di rigetto del ricorso per Cassazione promosso dal lavoratore.


Fonte: GIUFFRE' - QUOTIDIANO LAVORO