La norma di riferimento è l'art. 6 L. 142/2001, che consente di distinguere tra una parte obbligatoria ed una facoltativa del regolamento. Partendo da quella obbligatoria, la legge dispone che il regolamento deve contenere in ogni caso:
il richiamo ai contratti collettivi applicabili, per ciò che attiene ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato;
la disciplina delle modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci, anche nei casi di tipologie diverse da quella del lavoro subordinato;
il richiamo espresso alle normative di legge vigenti per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato;
l'attribuzione all'assemblea della facoltà di deliberare, all'occorrenza, un piano di crisi aziendale, che può prevedere anche la riduzione temporanea delle retribuzioni in deroga al trattamento minimo di cui all'art. 3; la disciplina dei piani di avviamento al fine di promuovere nuova imprenditorialità e nelle cooperative di nuova costituzione. Sempre l'art. 6 appena citato ci dice che il regolamento può inoltre:
prevedere la possibilità di sospendere il rapporto di lavoro con i soci-lavoratori in caso di riduzione dell'attività lavorativa per cause di forza maggiore o di circostanze oggettive, ovvero nelle ipotesi di crisi determinate da difficoltà temporanee della cooperativa;
disciplinare i ristorni da erogare in favore dei soci-lavoratori;
disciplinare il recesso dalla compagine sociale, con la possibilità di prevedere specifiche ipotesi al ricorrere delle quali può essere deliberata l'esclusione del socio o il socio stesso può recedere dal vincolo associativo per causa o colpa della Cooperativa.
Per capire quali sono i margini di intervento del regolamento, non si può che partire dall'art. 6, c. 2, L. 142/2001; questa disposizione infatti precisa che, salvo che per quanto previsto in relazione ai piani di crisi e di avviamento, “il regolamento non può contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto al solo trattamento economico minimo di cui all'articolo 3, comma 1”. L'art. 6 va letto in combinato disposto con l'art. 3, c. 1, L. 142/2001, ove si prevede che le cooperative sono obbligate a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore (il rinvio alla contrattazione collettiva – ai sensi dell'art. 7, c. 4, DL 248/2007 conv. in L. 31/2008 – va inteso avendo riguardo ai minimi previsti dai “contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”). Problematico quando si tratta di individuare i criteri utili per effettuare la comparazione tra i “minimi retributivi” previsti dal CCNL “leader” (la c.d. retribuzione-parametro) e il “trattamento economico complessivo” percepito dal socio-lavoratore in base al regolamento. Sul punto, la giurisprudenza ha stabilito che il trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva – ed al quale deve aversi riguardo per valutare la legittimità del trattamento economico riconosciuto ai soci – deve sempre intendersi "complessivo", quindi inclusivo sia della retribuzione base che delle “altre voci aventi natura retributiva”; inoltre, essendo collegato alla garanzia della giusta retribuzione ex art. 36 Cost., il trattamento economico minimo va inteso alla stregua di “un limite al di sotto del quale non sia possibile scendere, neanche per effetto di specifiche disposizioni derogatorie contenute nel regolamento cooperativo che, in quanto di minor favore rispetto alla contrattazione collettiva di categoria normativamente assunta a parametro dell'art. 36 Cost., sarebbero nulle” (Cass. 21 febbraio 2019, n. 5189). Tuttavia, non è del tutto chiaro cosa si debba intendere con l'espressione “altre voci aventi natura retributiva” su cui dovrebbe misurarsi il regime di inderogabilità previsto dall'art. 6, comma 2, L. 142/2001; mutuando la produzione giurisprudenziale elaborata attorno all'art. 36 della Costituzione, infatti, si potrebbe essere indotti ad escludere dal raffronto i compensi aggiuntivi di fonte esclusivamente contrattuale come gli scatti di anzianità e le mensilità eccedenti la tredicesima (es. la quattordicesima) (cfr. Cass. 17274/2003; Cass. 26953/2016; Cass. 12520/2004); altre pronunce però sembrano andare in senso contrario, stabilendo che “…gli istituti retributivi legati all'autonomia contrattuale (come ad esempio le mensilità aggiuntive oltre la tredicesima mensilità, i compensi aggiuntivi ed integrativi dei minimi salariali), benché non possano trovare automatica applicazione, tuttavia non possono essere neppure automaticamente esclusi e il loro esame complessivo è possibile al fine della determinazione della "giusta retribuzione" ai sensi della norma costituzionale” (Cass. 19576/2013). Alla luce di quanto sin qui emerso, sembra evidente che la portata derogatoria del regolamento non può essere limitata alle componenti economiche, rispetto alle quali residuano forti margini di incertezza. I più sicuri margini di interventi del regolamento, allora, vanno individuati con riferimento a tutte quelle possibili deroghe che possono incidere su clausole e pattuizioni a carattere normativo ed organizzativo, piuttosto che sulle componenti retributive in sé e per è considerate. Ad esempio, nel regolamento sarà senz'altro possibile modificare ed estendere la durata del periodo di prova, introdurre una diversa disciplina dei turni di servizio, del lavoro supplementare e dello straordinario (anche per quanto riguarda le modalità di recupero delle prestazioni lavorative rese oltre l'orario normale di lavoro), delle ferie e dei permessi (e relative modalità di fruizione), o ancora intervenire in tema di trattamento di malattia (ad esempio escludendo o limitando l'integrazione a carico del datore di lavoro), e così via. Analogamente si potrà intervenire in materia di piani di crisi, prevedendo la possibilità per l'assemblea di differire il pagamento di taluni emolumenti o talune mensilità, oppure di disporre la riduzione dell'orario di lavoro della generalità dei soci-lavoratori (o di alcune categorie di essi) (sul punto, si veda interpello Min. Lav. 6.2.2009 n. 720), e ciò anche in deroga al minimo retributivo di cui all'art. 3 comma 1, L. 142/2001 (si veda però Cass. 4 giugno 2019 n. 15172, secondo la quale i piani di crisi non possono derogare al minimale contributivo INPS).