Con ricorso depositato il 10 ottobre 2024, la FILCAMS CGIL di Milano – premessa la propria maggiore rappresentatività comparativa, sia a livello nazionale che territoriale – censurava la condotta antisindacale di due società convenute, consistita nel rifiuto di riconoscere ai lavoratori impiegati negli appalti il trattamento economico e normativo previsto dal contratto collettivo comparativamente più rappresentativo sottoscritto dalla ricorrente. In particolare, le società avevano imposto anche ai lavoratori iscritti alla CGIL trattamenti complessivamente inferiori, derivanti dal CCNL SAFI sottoscritto dalla UGL e dal contratto di prossimità aziendale, privo del prescritto requisito di rappresentatività ai fini della normativa antidumping. Il sindacato lamentava così la lesione del proprio ruolo e della propria attività istituzionale, riconosciuta dall'art. 29 c. 1‑bis D.Lgs. 276/2003 che – nel prevedere che “Al personale impiegato nell'appalto di opere o servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l'attività oggetto dell'appalto e del subappalto” – attribuirebbe alle organizzazioni comparativamente più rappresentative la funzione di contrasto al dumping contrattuale nel settore. In questo quadro, il giudice – accogliendo le doglianze del sindacato - ha valorizzato la dimensione “superindividuale” del parametro del contratto leader, evidenziando che la tutela prevista dalla norma in questione non riguarda solo il singolo lavoratore, ma anche la funzione di garanzia del sindacato nel settore. Un rischio sistemico: l'art. 28 St. Lav. come limite all'autonomia sindacale. La scelta del CCNL applicabile è – o almeno dovrebbe essere – un atto di autonomia organizzativa e contrattuale dell'impresa, espressione della libertà negoziale riconosciuta dall'ordinamento. Applicare il procedimento di repressione della condotta antisindacale a una scelta come questa – pur discutibile o eventualmente non conforme al parametro fissato dal legislatore – comporta un salto logico non proprio immediato: si passa infatti dal piano della tutela dei diritti individuali (retribuzione, istituti contrattuali) a quello della protezione collettiva, senza che emerga una linea di confine precisa tra i due ambiti. Il rischio è dunque che, in assenza di criteri di delimitazione precisi, ogni scostamento dal contratto leader possa essere automaticamente rilevato come antisindacale, trasformando l'art. 28 dello Statuto in uno strumento di regolazione del mercato dei contratti collettivi. Una torsione che potrebbe finire per comprimere eccessivamente la libertà dell'impresa, quando potrebbe essere sufficiente un sistema correttivo centrato sulla tutela dei diritti dei lavoratori (del resto, un simile correttivo è già applicato abitualmente e con efficacia dai giudici, ad esempio quando i lavoratori contestano la congruità della retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost.). La comparazione contrattuale: rigore tecnico e criticità
Il Tribunale di Milano adotta un metodo sistematico e rigoroso per valutare l'equivalenza tra i CCNL applicati e il contratto leader, mutuando criteri già previsti dal Codice degli Appalti Pubblici e dalle delibere ANAC. La comparazione prende in considerazione due profili:
l'equivalenza economica, comprendente stipendio base, scatti di anzianità, indennità fisse e premi strutturali;
l'equivalenza normativa, con l'analisi puntuale di 16 istituti fondamentali, tra cui straordinario, ferie, malattia, permessi, bilateralità e periodo di prova.
Per confrontare concretamente i contratti applicati, il Giudice ha disposto una CTU, la quale ha evidenziato discrepanze su più istituti che, sommate tra loro, hanno determinato la non equivalenza dei CCNL. La soglia di tolleranza adottata è minima: differenze anche marginali, se accumulate, possono risultare decisive. Pur garantendo un confronto dettagliato e oggettivo sia sul piano economico sia su quello normativo, questo approccio solleva alcune criticità. L'applicazione automatica del parametro del contratto leader, infatti, rischia di trasformare in problematici scostamenti contrattuali o differenze che, in un contesto di libera scelta del CCNL da parte dell'impresa, potrebbero essere fisiologiche o marginali. Il sacrificio imposto dall'interpretazione del Tribunale appare quindi significativo, soprattutto se confrontato con strumenti più calibrati, come l'integrazione tramite minimi inderogabili, già sperimentati in altre situazioni per tutelare i diritti economici e normativi dei singoli senza sovrapporre automaticamente la dimensione collettiva. Sotto altro profilo, poi, il ricorso alla condanna per repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro appare una misura davvero eccessiva rispetto a quanto potrebbe essere ottenuto con strumenti correttivi più calibrati (e peraltro già sperimentati in numerosi casi anche dal legislatore e dai giudici stessi), come l'integrazione tramite minimi inderogabili, strumento che garantirebbe comunque la tutela dei diritti economici e normativi dei singoli ma senza comprimere in modo eccessivo l'autonomia contrattuale dell'impresa e il naturale margine di scelta dell'interlocutore sindacale di riferimento. Viene infatti da chiedersi come il decreto in commento possa conciliarsi con la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, che – come è noto – riconosce al datore di lavoro la facoltà di scegliere con quale controparte sindacale trattare e stipulare contratti.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL