Cessione di ramo di azienda e diritto del lavoratore allo stipendio in caso di nullità

Cessione di ramo di azienda e diritto del lavoratore allo stipendio in caso di nullità

  • 12 Dicembre 2025
  • Pubblicazioni
La Corte di cassazione, con ordinanza 31185/2025 del 28 novembre, è tornata a occuparsi del tema della natura degli importi dovuti dalla datrice di lavoro cedente ai dipendenti ceduti nell’ambito di un trasferimento di ramo d’azienda ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile a seguito di dichiarazione di nullità dell’atto traslativo. In particolare, la Cassazione ha confermato il recente orientamento giurisprudenziale secondo cui la fattispecie di trasferimento di azienda non può essere assimilata a quella di appalto illegittimo, ragion per cui le retribuzioni pagate dal datore di lavoro cessionario non valgono a liberare il datore di lavoro cedente riconosciuto come datore effettivo e il lavoratore avrà pertanto diritto al pagamento dello stipendio anche da parte del cedente per il periodo intercorrente dalla cessione alla riammissione in servizio, benché sia già stato versato anche dalla cessionaria. Il caso in esame trae origine dalla richiesta di tre dipendenti trasferiti nel contesto di una cessione di ramo d’azienda, i quali hanno impugnato l’atto traslativo rilevandone la nullità e richiedendo la condanna della cedente al pagamento completo delle retribuzioni omesse per il periodo corrispondente al periodo intercorso tra la messa a disposizione per il rientro in servizio e l’effettiva reintegra. Il Tribunale e la Corte d’appello di Milano, sulla scorta della giurisprudenza più recente, hanno concordemente riconosciuto il diritto dei dipendenti al pagamento integrale delle omesse retribuzioni per l’intero periodo di interesse. La cedente impugnava quindi in sede di legittimità la decisione delle corti di merito sulla scorta dei seguenti motivi. In primo luogo, adducendo violazione di legge da parte della corte di merito nel ritenere che l’offerta di prestazione lavorativa da parte dei ricorrenti fosse sufficiente a costituire in mora la società, essendo i dipendenti ancora alle dipendenze della società cessionaria e, quindi, nella materiale impossibilità di offrire la propria prestazione lavorativa alla cedente. La società ricorrente rilevava altresì che, data la natura risarcitoria degli importi dovuti ai lavoratori, da tale importo totale andrebbe comunque sottratto l’aliunde perceptum, costituito da quanto corrisposto agli stessi a titolo di compenso dal datore cessionario. Secondo la società ricorrente, nel caso in esame avrebbero dovuto assumere rilievo l’adempimento del terzo, con effetti liberatori in favore della società cedente, anche in considerazione della sussistenza di un contratto di appalto tra la cedente e la cessionaria. La società ricorrente contestava inoltre l’omessa applicazione analogica dei principi in tema di effetto liberatorio del pagamento effettuato dallo pseudo appaltatore (articolo 27, comma 2, del Dlgs 276/2003 e articolo 38, comma 3, del Dlgs 81/2015), sollevando contestualmente questione di costituzionalità in relazione alla inapplicabilità – ritenuta appunto incostituzionale – di tali principi anche alla fattispecie di trasferimento di azienda ex articolo 2112 del codice civile. Da ultimo, la ricorrente desumeva che l’obbligo di pagamento della retribuzione come conseguenza automatica dell’offerta della prestazione lavorativa, pendente il giudizio di nullità della cessione, rappresenterebbe una violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza, proporzionalità della retribuzione, libertà di iniziativa imprenditoriale e giusto processo, sollevando anche in proposito questione di legittimità costituzionale. La Corte di legittimità, analizzando congiuntamente i motivi di impugnazione ha rigettato integralmente il ricorso e ha ribadito integralmente la giurisprudenza ormai consolidata (cfr. Cassazione 24896/2025, 20303/2025, 3505/2024, 2396/2023, 3480/2023 e 4074/2023) anche alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite 2990/2018, rigettando altresì le questioni di legittimità costituzionale sollevate. Nel rigettare il ricorso la Cassazione ha osservato che sebbene per lungo tempo (almeno fino al 2018) la giurisprudenza abbia ritenuto, in caso di nullità del trasferimento, la detraibilità del cosiddetti aliunde perceptum degli stipendi versati dalla cessionaria ai lavoratori dagli stipendi dovuti sino all’effettiva riammissione in servizio, senza distinzione, alla luce della sentenza 2990/2018 delle Sezioni Unite tale compensazione lucri cum damno deve intendersi operabile solo sino al momento della sentenza che rimuova gli effetti della cessione. Per il periodo successivo, infatti, anche quale efficace deterrente per indurre il datore di lavoro a riprendere in servizio il dipendente illegittimamente ceduto, tale decurtazione non deve ritenersi operabile, avendo la retribuzione dovuta al lavoratore per il periodo successivo alla sentenza di nullità vera e propria natura retributiva e non risarcitoria. Sicché di risarcimento del danno si può parlare esclusivamente per il periodo intermedio tra la cessione e la pronuncia di nullità della stessa. In risposta agli altri motivi di impugnazione sollevati dalla ricorrente, la Cassazione ha rilevato che la cessione di azienda o di un suo ramo non può essere equiparata ad una fattispecie di appalto illecito, in quanto in quest’ultima fattispecie (così come nella somministrazione irregolare) il datore di lavoro formale non utilizza la prestazione lavorativa, che viene resa unicamente per soddisfare l’interesse economico del committente (o dell’utilizzatore). Nella cessione di ramo d’azienda dichiarata illegittima (o inopponibile al lavoratore), invece, dopo la sentenza dichiarativa di illegittimità il rapporto di lavoro viene ricostituito de iure alle dipendenze del cedente, sicché il rapporto di lavoro che proseguisse di fatto alle dipendenze del cessionario è giuridicamente rilevante soltanto nei limiti dell’articolo 2126 del codice civile. Dunque, i rapporti di lavoro con la società cedente e la società cessionaria sono due, anche se tra le due società sussiste un contratto di appalto e se il lavoratore è impiegato nello svolgimento delle relative attività, sicché il cessionario che paga la retribuzione non adempie un debito altrui (ossia del cedente), bensì un debito proprio ex articolo 2126 del codice civile. Ne consegue l’inapplicabilità dell’adempimento del terzo (articolo 1180 del codice civile) e del meccanismo satisfattivo delineato dall’articolo 27, comma 2, Dlgs 276/2003, applicabile solo alla fattispecie di appalto illecito (cfr. Cassazione, Sezioni Unite 2990/2018).

Fonte: SOLE24ORE