Con l'ordinanza n. 27444 del 14 ottobre 2025, la Corte di Cassazione, innanzitutto, ricorda che il DM 11 dicembre 2009 ha aggiornato l'elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ex art. 139 del TU 1124/1965, includendo nella “Lista II al Gruppo 7”, fra le malattie psichiche e psicosomatiche derivanti da disfunzioni dell'organizzazione del lavoro, il “disturbo post-traumatico cronico da stress”. Esempi di costrittività organizzative. Questa patologia viene ricondotta alle lavorazioni/esposizioni definite come “costrittività organizzative”, di cui il decreto fornisce la relativa descrizione. In particolare, vi rientrano:
la marginalizzazione dall'attività lavorativa;
lo svuotamento di mansioni;
la mancata assegnazione prolungata di compiti lavorativi con inattività forzata;
l'attribuzione di compiti dequalificanti o con eccessiva frammentazione esecutiva rispetto al profilo professionale posseduto;
la prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi, anche in relazione ad eventuali condizioni di handicap psico-fisici;
l'impedimento sistematico e strutturale all'accesso a notizie;
l'inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l'ordinaria attività di lavoro;
l'esclusione reiterata del lavoratore da iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale;
l'esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nonché altre forme assimilabili.
Regime di prova e requisito della "doppia verifica". Tuttavia, il mantenimento della “costrittività organizzativa” nel gruppo 7 della Lista II - in forza della “limitata probabilità” di origine lavorativa - impone un'indagine sulle concrete modalità di svolgimento dell'attività lavorativa al fine di verificare la loro idoneità a determinare l'insorgenza della malattia. Pertanto, la previsione della disfunzione dell'organizzazione del lavoro quale causa del disturbo post-traumatico da stress richiede una verifica non solo di carattere medico-legale, in relazione alla patologia psichica e psicosomatica indicata in tabella, ma anche un accertamento delle condizioni organizzative gravanti sul lavoratore. Ne deriva così la necessità di una duplice verifica ai fini della qualificazione della malattia come “tabellata”:
l'oggettiva esistenza di condizioni organizzative tali da costringere il lavoratore a ridurre la pienezza qualitativa e/o quantitativa delle proprie mansioni;
la soggettiva alterazione psichica del vissuto lavorativo, manifestatasi durante lo svolgimento ordinario e prolungato dell'attività lavorativa, e non in modo occasionale.
Ai fini del riconoscimento presuntivo del nesso causale tra l'esposizione a rischio e la malattia diagnosticata, occorre dimostrare “in fatto” l'esistenza di atti o comportamenti che denotino una costrizione organizzativa potenzialmente lesiva dell'integrità psico-fisica del lavoratore. Tale accertamento richiede una dimostrazione in fatto sulle modalità e sui presupposti causativi dell'effetto patologico: non è, infatti, sufficiente comprovare l'assegnazione a mansioni aventi i caratteri esemplificativi - o assimilabili - elencati nella Lista II, Gruppo 7, né la sola natura stressogena della patologia. Occorre provare l'esistenza di una deviazione consapevole da un modello organizzativo fisiologico che crei condizioni di marginalizzazione dall'attività lavorativa, inattività forzata, dequalificazione o eccessiva frammentazione delle mansioni, impedimenti o carenze sistematiche di natura informativa e strumentale nonché esasperate forme di controllo. Ed è in presenza di tali condizioni che la prova della reiterazione e dell'intento persecutorio di condotte datoriali orientate alla “costrittività organizzativa” si pone in stretta connessione causale con il disturbo psichico diagnosticato, rilevante anche ai fini della copertura assicurativa. L'inserimento della malattia denunciata tra quelle tabellate, ai sensi dell'art. 3 DPR 1124/1965, comporta, infatti, il riconoscimento di una presunzione legale di origine professionale. Ciò, a condizione che il lavoratore dimostri di essere stato adibito ad una lavorazione tabellata – o, comunque, di essere stato esposto ad un rischio ambientale derivante da quella lavorazione - e che la malattia si sia manifestata e sia stata denunciata entro il termine previsto per l'indennizzabilità (cfr. Cass. n. 3207/2019). Rischio assicurato.
È vero che “la costrittività organizzativa” o il mobbing, nelle loro diverse manifestazioni, possono essere presi in considerazione in ambito INAIL e che il loro inserimento nelle tabelle di cui all'art. 139 DPR 1124/1965 può assumere valore indiziario. Tuttavia, ciò non significa che la sola presenza di un disturbo psichico connesso con il lavoro svolto costituisca, di per sé, motivo sufficiente per ottenere la copertura assicurativa, dovendo la fattispecie rimanere soggetta alle regole proprie delle malattie c.d. “tabellate”. In altri termini, affinché si verifichi il rischio assicurato o una responsabilità del datore di lavoro “è necessario che la situazione lavorativa intercetti una situazione obiettiva di nocività, perché il rapporto interpersonale interno ad un'organizzazione, inserito in una relazione continuativa, è in sé possibile fonte di tensioni, il cui sfociare in una malattia del lavoratore non può in sé dirsi ragione per la qualificazione in termini morbigeni dell'attività svolta, se non quando risulti l'eccedenza dalla norma, per fattori intenzionali (mobbing), per inadempimenti (dequalificazioni; svuotamento mansioni) o ricorrenze indebitamente stressogene (straining), anche sotto il profilo della perdurante eccedenza dei carichi o, al contrario, di vicende di emarginazione e simili” (cfr. Cass. n. 8948/2018). In questo contesto assume rilievo non solo il “rischio specifico” insito nella lavorazione, ma anche il c.d. “rischio specifico improprio”, ossia quello non strettamente connesso all'atto materiale della prestazione ma collegato al suo svolgimento. Ne consegue che la semplice insorgenza di una malattia non è di per sé sufficiente a dimostrare il nesso causale richiesto, se le condizioni di lavoro non eccedano la normale soglia dei rapporti professionali. E che la valutazione circa la “normalità” delle condizioni di lavoro non deve necessariamente fondarsi su valutazioni medico-legale, ma riguarda profili propri dei rapporti interpersonali nel contesto lavorativo, rientranti nella diretta competenza del giudice.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL