La gravità della malattia non si può attestare tramite whatsapp

La gravità della malattia non si può attestare tramite whatsapp

  • 31 Ottobre 2025
  • Pubblicazioni
Non basta un messaggio whatsapp per dimostrare che la malattia è “grave”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 26956/2025, affermando che l’attestazione della gravità della malattia deve avvenire secondo le modalità formali previste dal contratto collettivo. La comunicazione informale, anche se effettivamente pervenuta al datore di lavoro, non può sostituire il certificato medico richiesto dalla contrattazione. Il caso nasce nel settore dei servizi, dove un lavoratore, dopo aver comunicato l’assenza per malattia, ha informato il proprio superiore — solo tramite whatsapp — che si trattava di una “patologia grave”. Non ha però inviato alcuna documentazione medica atta a comprovare tale gravità, come richiesto dal Ccnl applicato in azienda per usufruire del periodo di comporto più lungo previsto per le malattie gravi e di terapie particolarmente invalidanti. L’azienda, ritenendo insussistente la prova della condizione, ha applicato il limite ordinario di comporto e, una volta decorso lo stesso, ha intimato il licenziamento per superamento del periodo massimo di malattia. Il Tribunale ha accolto il ricorso del lavoratore, sostenendo che la comunicazione via whatsapp fosse sufficiente a far conoscere al datore la natura della patologia e a far decorrere il regime di maggior tutela. La Corte d’appello ha confermato questa impostazione, ritenendo che la sostanza prevalesse sulla forma e che la conoscenza effettiva da parte dell’azienda fosse elemento sufficiente. La Cassazione, invece, ha ribaltato le decisioni di merito, richiamando il principio per cui gli obblighi di attestazione delle condizioni di salute — e, in particolare, della “gravità” della malattia — devono essere adempiuti nelle forme stabilite dal contratto collettivo e dalle norme sanitarie vigenti. Non basta una dichiarazione generica o informale, ma serve un certificato medico che indichi in modo chiaro la natura della patologia e la sua riconducibilità ai casi di malattia grave previsti dal contratto. La Suprema corte ha ricordato che la disciplina collettiva può prevedere trattamenti differenziati per le malattie di particolare gravità, ma l’accesso a tali regimi presuppone una formale certificazione sanitaria. L’onere di produrre tale documentazione grava sul lavoratore, che deve rispettare le modalità e i termini previsti dal contratto. I giudici di legittimità hanno richiamato i principi degli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, che impongono correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto, e hanno ribadito che la comunicazione informale non può valere come adempimento di un obbligo che ha anche una funzione di garanzia per il datore di lavoro, chiamato a verificare la fondatezza della richiesta di un trattamento più favorevole. È irrilevante, secondo la Corte, che il datore abbia appreso comunque dell’esistenza della malattia: ciò che rileva è che non gli sia stata trasmessa la documentazione prescritta, unica idonea a comprovare la condizione di gravità. La Cassazione ha così confermato la legittimità del licenziamento, ribadendo che la conoscenza informale non può sostituire l’adempimento formale previsto dal contratto collettivo. Si tratta di una pronuncia che riafferma un principio di rigore formale che va oltre il mero dato sostanziale. Un approccio condivisibile, se si considera il valore fondamentale che ha la tutela della malattia nell’ambito del rapporto di lavoro: il corretto utilizzo di tutti gli strumenti che l’ordinamento mette a disposizione per il lavoratore malato è fondamentale per rendere effettiva questa tutela.

Fonte: SOLE24ORE