Il caso oggetto della sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 16 ottobre 2025 (causa C-576/24 P) riguarda un'agente, assunta dall'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (EASO), oggi EUAA, come assistente amministrativo per un posto di assistente amministrativo di grado AST 1, per un periodo rinnovabile di cinque anni. Le sue mansioni consistevano nel controllare e confermare le fatture ricevute dai fornitori di servizi esterni dell'EASO e nell'inviare le richieste di rimborso delle spese di viaggio. A partire dal 2020, la ricorrente aveva segnalato ai suoi superiori gerarchici di aver avuto una serie di incidenti e tensioni con alcuni colleghi, consistenti in particolare nell'aver ricevuto un'e-mail da un collega contenente un linguaggio offensivo, nonché nell'aver riscontrato irregolarità in una nota spese. Queste segnalazioni avevano dato origine ad una serie di comunicazioni in cui la lavoratrice aveva coinvolto progressivamente i suoi responsabili gerarchici, senza però trovare da quest'ultimi il riscontro sperato. A seguito di ciò, la ricorrente decideva infine di avviare una serie di procedure contro l'EUAA. Infatti, nel 2021, presentava un reclamo – respinto dalla direzione - avente ad oggetto la contestazione del suo rapporto di valutazione per l'anno 2020 (giudicato "insoddisfacente" a causa di "persistenti problemi di comunicazione e di condotta inappropriata"). Sempre nello stesso anno, presentava una ulteriore segnalazione – parimenti respinta – per presunte molestie subite due colleghi. Inoltre, contestava la decisione di non considerare la sua candidatura per un nuovo bando di concorso sempre per agente, ma anche questo reclamo era rigettato. Infine, a novembre 2021, presentava un'ulteriore lamentela in merito a due questioni differenti: una nuova modalità di comunicazione interna relativa alle missioni del personale e la proposta di riclassificazione di un altro collega. Anche tale ultimo reclamo veniva giudicato infondato. Successivamente, il Direttore Esecutivo dell'EUAA comunicava alla lavoratrice l'intenzione di risolvere il suo contratto, addebitandole una "completa rottura del rapporto di fiducia", a causa di una condotta inappropriata (problemi di comunicazione nelle interazioni con i colleghi, incluso il management; comportamenti inappropriati persistenti nei confronti di determinati membri del personale; uso frequente di tecniche intimidatorie nella comunicazione scritta; rifiuto persistente e ingiustificato di ottemperare alle istruzioni dei superiori; mancanza di rispetto per le linee di reporting stabilite e inutile escalation di questioni banali all'alta dirigenza, compreso il direttore esecutivo dell'EASO; la trasmissione inutile e continua dei problemi a più attori, con conseguente notevole carico di lavoro e grave rischio di danno alla reputazione dell'EASO e la violazione del dovere di riservatezza e di conformità alle norme applicabili in materia di protezione dei dati personali). La lavoratrice adiva quindi il Tribunale dell'Unione Europea, chiedendo l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento e il risarcimento dei danni. Il Tribunale, tuttavia, rigettava integralmente il ricorso. Contro la sentenza, il lavoratore proponeva impugnazione dinanzi alla CGUE. La CGUE non ha accolto l'impugnazione, confermando la sentenza del Tribunale e, di conseguenza, la legittimità del licenziamento. La decisione della Corte è squisitamente di natura processuale e si concentra sui limiti del proprio potere di controllo di legittimità. La CGUE ha anzitutto ricordato un principio fondamentale: il Tribunale è l'unico giudice competente ad accertare e valutare i fatti. La Corte di Giustizia, in sede di impugnazione, non può dunque riesaminare le prove o sostituire la propria valutazione dei fatti a quella del Tribunale, a meno che non venga dimostrato un vero e proprio snaturamento degli elementi di prova, ovvero un palese errore di valutazione che non renda necessario un nuovo esame del merito. Il ricorrente, nel suo unico motivo di ricorso, ha tentato di dimostrare proprio questo snaturamento, ma la Corte ha esaminato e respinto tutte le censure del ricorrente. Riguardo alle presunte molestie da parte di un collega, la CGUE ha ritenuto che il Tribunale non avesse snaturato le prove nel considerare un'e-mail "inappropriata" come un episodio isolato, insufficiente a configurare un comportamento "duraturo, ripetitivo o sistematico" richiesto per la qualifica di molestie morali. Allo stesso modo, la Corte ha confermato la valutazione del Tribunale riguardo al rapporto con il superiore gerarchico, ritenendo che, sebbene alcuni suoi consigli potessero essere percepiti come minacciosi, essi andavano contestualizzati nelle continue e pressanti richieste della stessa lavoratrice. In definitiva, la Corte di Giustizia concludeva evidenziando che la ricorrente chiedeva una nuova valutazione dei fatti e che tale valutazione esula dalle competenze della Corte. Di conseguenza l'impugnazione veniva respinta e la lavoratrice condannata al pagamento delle spese processuali.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL