La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 14 luglio 2025, n. 19367, in tema di licenziamento della lavoratrice madre, ha stabilito che la verifica in ordine alla sussistenza della colpa grave che rende inoperante il divieto di licenziamento deve estendersi a un’ampia ricostruzione fattuale del caso concreto e alla considerazione della vicenda espulsiva nella pluralità dei suoi componenti, quali le possibili ripercussioni sul piano personale, psicologico, familiare e organizzativo della fase dell’esistenza in cui la donna si trova, con un rigore valutativo adeguato, ponendosi tale colpa come causa di esclusione di un divieto che attua la tutela costituzionale della maternità e dell’infanzia. Una lavoratrice in stato di gravidanza impugna il licenziamento per giusta causa intimatole per un’assenza non tempestivamente giustificata: ricevuta la contestazione disciplinare, la dipendente aveva prodotto un fax falsificato, recante la certificazione medica necessaria. A fronte di tale condotta, il datore di lavoro irrogava il licenziamento in tronco, ravvisando un atteggiamento doloso o, comunque, di colpa grave nella falsificazione della documentazione sanitaria, idoneo a minare irreversibilmente il vincolo fiduciario. Parallelamente all’impugnazione giudiziale del licenziamento, si apriva un procedimento penale per falso, nell’ambito del quale veniva accertata la condotta artefatta della dipendente. Dopo un complesso iter giudiziario, la Corte di Cassazione veniva investita delle seguenti questioni:
il rapporto tra giudizio penale e civile, con riferimento all’utilizzabilità delle risultanze istruttorie;
la rilevanza della colpa grave quale quid pluris legittimante il licenziamento anche in gravidanza.
Quanto al primo profilo, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo l’utilizzo delle risultanze penali nel processo del lavoro, purché il giudice civile dia conto in maniera autonoma e critica delle ragioni che lo inducono ad aderire alle conclusioni del giudice penale. Venendo, poi, al secondo profilo, la Corte di Cassazione ha escluso che la condotta posta in essere dalla lavoratrice fosse riconducibile alla mera assenza ingiustificata, in quanto aggravata da una falsificazione consapevole e artificiosa, idonea a integrare la colpa grave che rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza, ex art. 54, comma 3, lett. a), D.Lgs. n. 151/2001. Secondo la Suprema Corte la valutazione deve avere carattere complessivo, considerando la fisionomia del comportamento, l’elemento soggettivo e l’impatto di un provvedimento espulsivo nei confronti di una lavoratrice in condizione di tutela rafforzata.
In conclusione, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla lavoratrice, affermando che:
in presenza di condotte artificiose e dolose il licenziamento per giusta causa è legittimo anche durante la gravidanza;
le risultanze penali possono essere valorizzate nel giudizio civile, a condizione che il giudice del lavoro le faccia proprie attraverso un percorso argomentativo autonomo e verificabile.