Il Ccnl maggiormente applicato può non essere adeguato e sufficiente

Il Ccnl maggiormente applicato può non essere adeguato e sufficiente

  • 13 Ottobre 2025
  • Pubblicazioni
La necessità di individuare i Ccnl «maggiormente applicati», prevista dalla nuova legge delega in materia di retribuzione dei lavoratori e contrattazione collettiva (legge 144/2025, in vigore dal 18 ottobre), è il fil rouge lungo il quale si dipanerà, non senza contrasti, la costruzione nel nostro Paese di un futuro salario minimo legale. Una specifica norma, contenuta nell’articolo 1, comma 2, lettera a, delega il Governo a definire, per ciascuna categoria di lavoratori, i Ccnl maggiormente applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti, stabilendo altresì che il trattamento economico complessivo minimo in essi previsto rappresenti una sorta di salario minimo legale per i lavoratori della «stessa categoria» (ma non è chiaro cosa debba intendersi con tale espressione). Si tratta di un criterio meramente quantitativo e radicalmente diverso da quello attuale fondato sulla nozione di contratti “comparativamente (o maggiormente) più rappresentativi”, formula ormai ben nota agli operatori del settore e cristallizzata nell’articolo 51 del decreto legislativo 81/2015. Ma non si tratta soltanto di mere differenze lessicali. Come hanno sottolineato alcune parti sociali nel corso delle audizioni, il nuovo criterio potrebbe spingere le aziende ad applicare i contratti collettivi più convenienti, soprattutto in una condizione di perdurante assenza di una legge in materia di rappresentanza sindacale. Il rischio è quello di un livellamento verso il basso dei salari (dumping contrattuale) ovvero di una possibile legittimazione, sia pure involontaria, dei contratti pirata, ossia accordi stipulati da organizzazioni sindacali scarsamente rappresentate tra i lavoratori. Questi accordi potranno diffondersi in ragione del minor costo del lavoro previsto per le aziende e divenire, in tal modo, quelli “maggiormente applicati”. Si noti, peraltro, che la legge delega prevede espressamente l’estensione del trattamento economico complessivo minimo individuato dai contratti «maggiormente applicati» al settore degli appalti e subappalti, nonché ai lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva (in tale ultimo caso varrà la contrattazione più affine). Del resto, il criterio della maggiore applicazione di per sé non rappresenta una garanzia di adeguatezza e sufficienza (parametri della retribuzione costituzionalmente garantiti). Già in passato i giudici di legittimità hanno dichiarato l’illegittimità di contratti che, pur diffusamente applicati, non garantivano ai lavoratori garanzie complessive retributive adeguate (si vedano, da ultimo, le sentenze della Cassazione quasi gemelle diffuse nell’ottobre 2023). Rischi in ogni caso temperati dal «carattere meramente ricognitorio e definitorio» del nuovo criterio (in tali termini si esprime la relazione tecnica), che dovrà comunque essere attuato dal ministero del Lavoro, anche con il supporto di altri enti come Inps, Inail, Cnel (non sono inclusi i professionisti del settore). Degna di nota la norma (articolo 1, comma 2, lettera d) secondo la quale, nell’esercizio della delega, il Governo dovrà favorire lo sviluppo della contrattazione di secondo livello «anche per fare fronte alle esigenze diversificate derivanti dall’incremento del costo della vita e correlate alla differenza di tale costo su base territoriale». Una sorta di riedizione, sia pure indiretta, delle ormai risalenti “gabbie salariali”? Il collegamento al criterio territoriale non appare certamente il più felice. Una differenziazione retributiva a livello aziendale già esiste ed è testimoniata dall’articolato dipanarsi di innumerevoli strumenti di welfare e meccanismi premiali introdotti dalla contrattazione di prossimità (da quella aziendale a quella territoriale). Tutti, però, parametrati e condizionati a misuratori di produttività, non meramente e semplicisticamente collegati a fattori geografici e territoriali. Infine un accenno alle esigenze di trasparenza e contrasto al dumping contrattuale che, pure enunciate solennemente dalla legge, rischiano, in una sorta di eterogenesi dei fini, di innescare ulteriori e non auspicabili complicazioni burocratiche ed amministrative. Si pensi alla indicazione obbligatoria del codice Ccnl nei flussi uniemens, nelle comunicazioni obbligatorie e finanche nei cedolini paga (una previsione ridondante, a nostro giudizio). Positiva l’esigenza di razionalizzare le modalità di comunicazione tra le imprese e gli enti pubblici in materia di retribuzioni e applicazione della contrattazione collettiva mentre è assente una nozione univoca di “trattamento economico complessivo minimo” come condizione economica minima da riconoscere ai lavoratori. È noto, infatti, come praticamente ogni contratto collettivo adotti una nozione di trattamento economico differente, comprendente mensilità aggiuntive, indennità, premi, welfare integrativo, trattamenti differiti ed altri istituti economici e normativi. Una mancanza che, come sottolineato dai consulenti del lavoro nel corso delle audizioni, rischia di generare incertezza applicativa e, in alcuni casi, contenzioso giurisprudenziale sulla corretta quantificazione del “minimo” garantito.

Fonte: SOLE24ORE