Se l'indennità di fine mandato è prevista da un atto certo, la rinuncia dell'amministratore deve essere espressa o risultare da comportamenti inequivoci, non dalla semplice inerzia. La rinuncia elimina la passività e genera una sopravvenienza attiva imponibile. Il periodo di tassazione coincide con l'anno in cui la rinuncia si considera intervenuta (CGT II Lombardia 24 settembre 2025 n. 2064). A fronte di un atto certo di data anteriore all’inizio del rapporto che preveda l’indennità di fine mandato all’amministratore, per potersi configurare una rinunzia, occorre un atto altrettanto certo ed espresso, a meno che il trascorrere del tempo, unitamente ad altre condizioni fattuali inequivoche, non conducano a ritenere provato, in via presuntiva, la ricorrenza del «pactum de non petendo» circa il credito maturato, sì da configurare, agli effetti fiscali, una sopravvenienza attiva da sottoporre a tassazione nell’anno in cui detta rinunzia (espressa o tacita) si assuma come intervenuta. Il TUIR (art. 88) considera sopravvenienze attive « i ricavi o altri proventi conseguiti a fronte di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi e i ricavi o altri proventi conseguiti per ammontare superiore a quello che ha concorso a formare il reddito in precedenti esercizi, nonché la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi». Con riferimento agli accantonamenti di quiescenza e previdenza, la disciplina fiscale (art. 105) ne prevede la deducibilità nei limiti delle quote maturate nell'esercizio in conformità alle disposizioni legislative e contrattuali che regolano il rapporto di lavoro dei dipendenti stessi nonché che i maggiori accantonamenti necessari per adeguare i fondi a sopravvenute modificazioni normative e retributive sono deducibili nell'esercizio dal quale hanno effetto le modificazioni o per quote costanti nell'esercizio stesso e nei due successivi. Una società di capitali, operante nel settore della fabbricazione di medicinali ed altri preparati farmaceutici, impugnava un avviso di accertamento parziale concernente l'anno d'imposta 2017 che scaturiva dal riscontro, nel corso dell'attività istruttoria, di anomalie emerse in corrispondenza della voce “Trattamento di quiescenza e simili”. Di conseguenza, l'Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione il maggiore reddito d'impresa rispetto al dichiarato in ragione di minori costi, corrispondenti alle quote di accantonamento delle somme dovute agli amministratori non soci per fine mandato (TFM). L'Agenzia offriva in giudizio elementi di prova a conforto dell'indeducibilità dei costi derivanti dal crescente ammortamento del credito per TFM nei confronti degli amministratori non soci che si erano avvicendati nella conduzione della società dal 2008 al 2018. In particolare, con riferimento all'anno d'imposta 2017, l'Ufficio motivava la contestazione del minor costo deducibile in conseguenza di una tacita rinunzia al trattamento di fine mandato da parte dell'amministratore dimissionario. I giudici tributari hanno “bocciato” l'operato dell'Ufficio non condividendo la motivazione alla base della ripresa fiscale in quanto “artatamente fondata su una tacita volontà abdicativa del diritto che mal si conciliava con il formalismo e la sostanza degli atti societari, oltre che con la disciplina della prescrizione in materia societaria». La Corte, dopo aver richiamato la disciplina fiscale di riferimento (i.e. artt. 88 e 105 TUIR, in combinato disposto dell'art. 13 c. 3 D.Lgs. 147/2015), hanno osservato che, a fronte di un atto certo di data anteriore all'inizio del rapporto che preveda l'indennità di fine mandato all'amministratore (nel caso di specie, risultava pacifico il riferimento alla delibera assembleare del 2013 nella quale era stata determinata un'indennità di fine mandato pari all''8 per cento sul volume d'affari prodotto dalla società), per potersi configurare una rinunzia, occorre un atto altrettanto certo ed espresso, a meno che il trascorrere del tempo, unitamente ad altre condizioni fattuali inequivoche, non conducano a ritenere provato, in via presuntiva, la ricorrenza del “pactum de non petendo” circa il credito maturato, sì da configurare, agli effetti fiscali, una sopravvenienza attiva da sottoporre a tassazione nell'anno in cui detta rinunzia (espressa o tacita) si assuma come intervenuta. Nel caso specifico, risultava pacifico che l'amministratore in carica nel 2017 era stato sostituito nel marzo 2018; pertanto, hanno affermato a chiare lettere gli interpreti, nell'esercizio 2017, alla luce del principio di competenza, non risultava agli atti alcuna rinunzia espressa al credito maturato (né poteva esservi), né tantomeno risultava desumibile un “animus donandi per facta concludentia”, atteso che i diritti patrimoniali maturati in ambito societario, si prescrivono in 5 anni dal momento del sorgere del diritto ex art. 2949 c.c. (sub specie decorrenti dalla cessazione del rapporto). Pertanto, ha concluso la Corte, in relazione all'annualità in contestazione, «non poteva dirsi generata, contabilmente o fiscalmente alcuna sopravvenienza attiva incidente sul reddito annuale, per effetto di una rinunzia tacita».
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL