Accomodamenti ragionevoli purché la prestazione rimanga utile
- 25 Settembre 2025
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Con l’ordinanza 24994/2025 dell’11 settembre, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema dei licenziamenti per sopravvenuta inidoneità alle mansioni, soffermandosi in particolare sul contenuto e sui limiti degli “accomodamenti ragionevoli” che il datore di lavoro è tenuto ad adottare in base all’articolo 3, comma 3-bis, del Dlgs 216/2003. Secondo la Corte, gli accomodamenti sono ragionevoli nella misura in cui non comportino un sacrificio degli assetti organizzativi tale da eccedere l’effettiva utilità della prestazione lavorativa. Nel caso specifico, una lavoratrice impiegata di un hotel era rientrata al lavoro dopo un lungo periodo di assenza con un certificato medico che l’aveva dichiarata inidonea a movimentare carichi e a svolgere attività in stazione eretta prolungata. A fronte della sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle precedenti mansioni e nell’impossibilità di assegnarle mansioni compatibili con la sua ridotta capacità fisica in assenza di specifiche competenze, la dipendente è stata licenziata. All’esito del giudizio per l’impugnazione del licenziamento, entrambe le corti di merito hanno accertato la legittimità del licenziamento alla luce del fatto che, tra le attività presenti in azienda, le uniche compatibili con le rinnovate esigenze fisiche della lavoratrice (cuoca, addetta alla reception, all’amministrazione o alla cassa) erano estranee alla sua professionalità, mentre tutte le attività compatibili con la sua esperienza lavorativa (governante ai piani o di pulizia, servizio in sala o bar) le erano precluse a causa della ridotta capacità fisica. La lavoratrice ha impugnato la sentenza di appello, deducendo l’errore delle corti di merito nell’applicazione del principio degli accomodamenti ragionevoli. Nello specifico, non era stato adeguatamente valorizzato il fatto che il datore di lavoro potesse agevolmente rimodulare la distribuzione delle mansioni disponibili, poiché nello specifico ambiente di lavoro «tutti facevano tutto». La Suprema corte ha rigettato il ricorso sull’assunto per cui il dovere in capo al datore di lavoro di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli idonei a soddisfare l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica deve comunque essere contemperato dall’interesse del datore stesso a riceve una prestazione utile all’impresa. Non essendo possibile disciplinare in astratto il contenuto degli accomodamenti ragionevoli, essi devono essere apprezzati alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, secondo una valutazione riservata al giudice di merito avente a oggetto sia le caratteristiche e capacità residue del lavoratore, sia lo specifico ambiente di lavoro in cui questi è chiamato a operare. In questo senso, i giudici di legittimità hanno confermato il principio già affermato dalle Sezioni unite (5688/1979 citata in 6497/2021), secondo cui l’onere della prova gravante sul datore di lavoro è soddisfatto laddove questi dimostri, da un lato, di aver posto in essere ogni possibile sforzo per individuare una soluzione organizzativa appropriata e concreta per favorire l’interesse del dipendente alla conservazione del posto di lavoro e, dall’altro, che ogni soluzione individuabile, pur quanto concretamente applicabile, risulti in ultima analisi irragionevole in quanto sproporzionata o eccessiva a causa del costo o delle dimensioni e delle risorse dell’impresa. Per la Suprema corte tali principi sono stati applicati correttamente nel caso specifico: secondo le corti di merito, considerate le capacità della lavoratrice e le mansioni disponibili, anche effettuando una ridistribuzione delle stesse ella sarebbe rimasta inoperosa per parte dell’orario, con conseguente notevole mancanza di utilità della prestazione lavorativa e imposizione di un sacrificio eccessivo in capo al datore.
Fonte: SOLE24ORE