Licenziamento ritorsivo nullo, prova a carico del lavoratore
- 5 Ottobre 2022
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La Corte di cassazione, con la sentenza 26395/2022 dello scorso 7 settembre, coglie l'opportunità per ribadire il consolidato orientamento giurisprudenziale che ricollega il rifiuto del lavoratore di adempiere all'ordine datoriale di trasferimento illegittimo alla più ampia tematica relativa all'inadempimento di una delle parti del contratto a prestazioni corrispettive.
In particolare, il caso di specie trae origine dal ricorso di un lavoratore, il quale contestava la legittimità del provvedimento espulsivo intimatogli, in virtù del suo rifiuto - in via di eccezione di inadempimento in base all'articolo 1460 del Codice civile - di ottemperare all'ordine di trasferimento, considerato illegittimo perché ritorsivo. Mentre in primo grado il lavoratore risultava soccombente, la Corte d'appello di Roma riformava la sentenza impugnata, dichiarando la nullità del licenziamento intimatogli e condannando la società alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente e al pagamento di un'indennità risarcitoria. Per la Corte territoriale, l'assenza del lavoratore posta alla base del licenziamento, non poteva qualificarsi come ingiustificata: questa costituiva, infatti, il legittimo esercizio da parte dello stesso dipendente del suo potere di autotutela contrattuale rispetto al provvedimento di trasferimento, il cui carattere ritorsivo risultava da determinati “indici presuntivi”. Proprio da suddetti caratteri presuntivi, il giudice di secondo grado ha altresì dedotto che tale intento illecito era stato determinante anche nella conseguente scelta datoriale di procedere al licenziamento del dipendente. I giudici di legittimità, confermando la sentenza della Corte d'appello di Roma, hanno ribadito che, relativamente al licenziamento ritorsivo, questo si configura qualora «l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso». È stato così dato seguito all'orientamento giurisprudenziale maggioritario, in virtù del quale il licenziamento ritorsivo si concretizza in «un'ingiusta e arbitraria reazione del datore essenzialmente quindi di natura vendicativa a un comportamento legittimo del lavoratore e inerente a diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro o a questo comunque connessi» (Cassazione 14928/2015). Il licenziamento per ritorsione, pertanto, è sempre nullo, a patto che il motivo ritorsivo, e quindi illecito, sia stato determinante per il recesso e «sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni» (Cassazione 17087/2011). Sul punto, la Cassazione ha difatti precisato che l'onere di provare la natura ritorsiva determinante del licenziamento grava sul lavoratore, in base al disposto di cui all'articolo 2697 del Codice civile, ma esso può essere assolto anche mediante presunzioni, come nel caso in esame.