Per la Corte di giustizia europea non è (astrattamente) in contrasto con la Direttiva europea 2000/78/CE e non è discriminatoria dei lavoratori disabili una normativa nazionale (nella specie il Ccnl Commercio) che prevede una conservazione del posto di lavoro per malattia di 180 giorni al quale può aggiungersi, in taluni casi e su richiesta del lavoratore, un periodo di aspettativa e non rinnovabile di 120 giorni. Tuttavia, questa normativa, seppur non specifica per i portatori di handicap (nel significato di cui alla Convenzione Onu 2006), non può esimere il datore di lavoro dall’adozione di soluzioni ragionevoli, che, senza costituire un onere eccessivo, possono in qualche modo consentire il mantenimento occupazionale. La congruità della disciplina nazionale e della sua previsione di eventuali soluzioni ragionevoli è rimessa al giudice nazionale. Così “risponde” la Corte Ue, con sentenza dell’11 settembre 2025, C-5/24, all’ordinanza di rinvio del Tribunale di Ravenna in una causa di licenziamento per superamento del periodo di comporto di una lavoratrice dipendente di una piccola impresa, la cui disabilità era conosciuta dopo il recesso. In realtà, la Corte di giustizia offre una soluzione interpretativa molto complessa rispetto alle attese del Giudice del rinvio (e degli operatori del settore). Prima di questa sentenza, la giurisprudenza della Corte di cassazione si era consolidata nel richiedere una disciplina di comporto per i lavoratori disabili, stigmatizzando previsioni che ponessero sullo stesso piano lavoratori portatori di handicap e non (si vedano in particolare le sentenze 9095/2023 e 11731/2024). Il Tribunale di Ravenna, pur consapevole di quell’orientamento, aveva dubitato della sua portata, ravvisando come la prassi della contrattazione collettiva, in linea generale, disponesse già periodi lunghi di conservazione del posto di lavoro. Secondo il Giudice ravennate, periodi consistenti come 6 mesi, uniti alla possibilità di una aspettativa a richiesta dell’interessato, sarebbero congrui anche per soggetti la cui esposizione al rischio di malattia, legata all’handicap, è più elevata. La Corte europea, con la sentenza dell’11 settembre scorso, sembra confermare le premesse del Tribunale di Ravenna e così superare il pregiudizio di partenza della nostra Cassazione, la quale appunto aveva ritenuto discriminatori licenziamenti per superamento del comporto applicativi di una regolamentazione generale (cosiddetta discriminazione indiretta). La Corte di giustizia, infatti, ricorda che la Direttiva europea non è normativa, né contiene condizioni particolari sul licenziamento, ma la sua funzione è quella di prescrivere l’adozione di provvedimenti appropriati per i disabili. Sarà quindi il Giudice nazionale, investito del caso esaminato, a verificare se e come il datore li ha adottati o, al contrario, se la mancata implementazione sarebbe stata un onere eccessivo. Ed è qui il punto dolente. Questa prospettiva suggerita in sede europea, seppur meno radicale di quella offerta dall’ultimo orientamento della Cassazione, si scontra con la sua applicazione pratica, soprattutto quando gli eventi morbosi si protraggono senza soluzione di continuità per tutto il periodo di conservazione del posto di lavoro. Le malattie continuative, in genere, non consentono al datore di lavoro, salvo una sua conoscibilità, di verificare se lo stato morboso, pur non legato a fattori lavorativi, sia recuperabile o meno con una diversa e migliore collocazione anche fisica del dipendente o anche con un periodo di conservazione più lungo (come appunto vorrebbe la Cassazione). E soprattutto, tali eventi pongono a carico del datore di lavoro (e indirettamente al medico competente) un onere di verifica che, per la complessità della disabilità (che non è solo biomedica), non è sempre di pronta attuazione. La prospettiva futura plausibile, dopo la sentenza della Corte Ue, è che sin quando i ccnl applicati non avranno regolamentazioni specifiche (come, ad esempio, di recente il Ccnl del settore Gas-Acqua rinnovato lo scorso 8 maggio e che ha statuito comporti più lunghi), si continuerà nell’adozione unilaterale di un comporto maggiore per evitare scrutini di illegittimità, in attesa di nuove pronunce. Certamente- ha concluso la Corte europea - la concessione dell’aspettativa non è accomodamento ragionevole se applicato indistintamente per tutti i lavoratori, e cioè a prescindere dalla condizione di disabilità. Quindi l’adozione di un periodo più lungo di comporto deve essere l’esito di una valutazione specifica della disabilità e non applicazione di una previsione generale della normativa nazionale (e nel nostro caso della contrattazione collettiva).
Fonte: SOLE24ORE