Rinuncia al superminimo: può essere anche tacita

Rinuncia al superminimo: può essere anche tacita

  • 2 Settembre 2025
  • Pubblicazioni
Nel caso oggetto dell'ordinanza della Cassazione n. 22767 del 6 agosto 2025, la Corte distrettuale aveva accolto l'appello proposto da una società avverso la decisione di primo grado con cui era stata condannata a corrispondere ad un lavoratore una determinata somma, oltre accessori. Somma che era stata quantificata all'esito della compensazione tra il credito del lavoratore a titolo di differenze retributive - maturate per lo svolgimento delle mansioni di impiegato direttivo e decurtate da una quota superminimo stipendiale - ed il credito della società, accertato in parziale accoglimento della domanda riconvenzionale formulata, per la restituzione delle somme illecitamente sottratte dallo stesso alle casse societarie. In particolare, la Corte d'appello aveva ritenuto gli elementi emersi in giudizio sufficienti a dimostrare l'accettazione tacita da parte del lavoratore della riduzione del superminimo comunicata con raccomandata nel febbraio 2009. Per la cassazione della sentenza il lavoratore proponeva ricorso, affidandosi a due motivi. Chiamata a pronunciarsi, la Corte di Cassazione ribadisce, in primo luogo, che la discrezionalità del datore di lavoro nel corrispondere il cosiddetto “superminimo” e nel determinare il suo ammontare è “insuscettibile di limitazione”. Tuttavia, questo trattamento economico aggiuntivo rispetto al minimo tabellare, allorquando diventa parte integrante della retribuzione del lavoratore, trova un “ostacolo insormontabile nella immodificabilità unilaterale dell'obbligazione retributiva” di cui all'art. 2103 c.c. Ne consegue che “il criterio di detta eccedenza in successivi miglioramenti economici si rende inoperante allorché essa integri un determinato elemento retributivo già erogato in misura generalizzata ed uniforme, non per ragioni di merito, ma per ragioni di opportunità aziendale, mentre il nuovo emolumento, produttivo di tali miglioramenti, abbia soltanto carattere incentivante ed eventuale”. Un orientamento consolidato, formatosi prima delle modifiche apportate all'art. 2103 c.c. dal D.Lgs. 81/2015, ha sempre ritenuto il superminimo nella piena disponibilità delle parti, proprio perché elemento non direttamente derivante da norme inderogabili di legge o di contratto, ma frutto di un accordo individuale. La Corte di Cassazione cita la pronuncia n. 5655/1985 che ha rappresentato un punto di riferimento per detto orientamento, la quale è stata successivamente oggetto di reinterpretazioni giurisprudenziali e, in alcuni casi, di un parziale superamento o, quantomeno, di un rafforzamento delle cautele richieste per ritenere legittima la modifica o l'eliminazione del superminimo, soprattutto in un'ottica di tutela della posizione del lavoratore. Anche le sentenze più recenti tendono a dare maggior peso al principio della irriducibilità della retribuzione con riferimento pure al superminimo individuale, sebbene con delle specificità (cfr. Cass. n. 22041/2023). Secondo la Corte di Cassazione l'impostazione del giudice di secondo grado - che, muovendo proprio dalla decisione n. 5655/1985, ha ritenuto pienamente valida l'adesione del lavoratore alla proposta di riduzione del superminimo poiché esso, aggiungendosi alla retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva, non rientra tra le componenti del cosiddetto “minimo inderogabile” e, pertanto, rimane nella piena disponibilità delle parti - va corretta. E ciò va fatto alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità (tra cui, da ultimo, la sentenza n. 22041/2023) che ha ribadito come il principio dell'irriducibilità della retribuzione ex art. 2103 c.c. comporti l'impossibilità di ridurre il trattamento economico concordato al momento dell'assunzione, anche in presenza di un accordo tra datore e lavoratore, rendendo nullo ogni patto contrario, anche se formalizzato in un contratto individuale. Tuttavia, la medesima pronuncia ha precisato che, in caso di legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, la garanzia dell'irriducibilità si estende “alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti”, e non anche “a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa” (cfr. Cass. n. 19092/2017; Cass. n. 22522/2021, n. 6563/2009; n. 4055/2008; e, nella motivazione, Cass. n. 19258/2019). In sostanza, per la Corte di Cassazione, il livello retributivo acquisito dal dipendente, tutelato dal principio della irriducibilità ex art. 2103 c.c., deve essere determinato considerando l'insieme dei compensi attinenti alla professionalità tipica della qualifica rivestita. Restano, invece, esclusi da tale garanzia i compensi corrisposti in ragione di particolari modalità esecutive della prestazione lavorativa o legati a specifici disagi o difficoltà. Essi non spettano allorquando vengono meno le condizioni che ne avevano giustificato l'attribuzione così come statuito anche dalla sentenza n. 29247/2017. La richiamata giurisprudenza, continua la Corte di Cassazione, si concentra sull'ipotesi di esercizio dello ius variandi e l'interpretazione normativa che ne deriva deve ritenersi applicabile a tutte le ipotesi di accordo per la riduzione della retribuzione, anche qualora non vi sia un mutamento di mansioni o di livello di inquadramento (cfr. Cass. n. 26320 del 2024). La Corte di Cassazione sottolinea che nella fattispecie in esame non è stata sollevata alcuna questione sulla natura del superminimo e sulla sua correlazione con la professionalità propria della qualifica rivestita. Parimenti, non è stato posto il tema della necessità di un eventuale accordo da sottoscrivere in una delle sedi protette di cui all'art. 2113 c.c., allo scopo di garantire la genuinità della volontà del lavoratore e prevenire future impugnazioni. Ad avviso della Corte di Cassazione, escluso che possa assumere rilevanza ed efficacia una rinuncia tacita nell'ambito di un rapporto di lavoro, dato lo squilibrio contrattuale esistente tra le parti, la Corte distrettuale ha svolto un accertamento di fatto sul contegno delle parti incensurabile in sede di legittimità. In particolare, i giudici di merito hanno valorizzato non solo la sottoscrizione della raccomandata a mano del febbraio 2009 senza alcuna riserva e senza alcuna specificazione che la stessa valesse solo quale segno dell'avvenuta ricezione, ma anche il complessivo comportamento concludente tenuto dal lavoratore negli anni, caratterizzato dall'incondizionata accettazione della riduzione medesima. In particolare, gli elementi complessivamente emergenti – quali le difficoltà finanziarie della società, il prevedibile intento del lavoratore di rinunciare ad una quota del superminimo per evitare un possibile licenziamento e l'accettazione, in fatto, della riduzione – indicavano una condivisione, per facta concludentia, della riduzione effettuata. Pertanto, per la Corte di Cassazione deve concludersi che la Corte distrettuale ha compiuto una ricostruzione della volontà abdicativa del lavoratore, anche attraverso elementi indiziari ex art. 2729 c. c., in termini certi e idonei ad attestare, in modo univoco, la volontà dello stesso di rinunziare ad un diritto già entrato nel suo patrimonio. E tale valutazione deve ritenersi sottratta al sindacato di legittimità. In considerazione di quanto sopra esposto la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo alla refusione delle spese di lite.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL