Registrazioni sul luogo di lavoro: quando sono prove ammissibili

Registrazioni sul luogo di lavoro: quando sono prove ammissibili

  • 2 Settembre 2025
  • Pubblicazioni
Il caso oggetto dell'ordinanza n. 20487 del 21 luglio 2025 della Cassazione trae origine dal procedimento disciplinare avviato da una società nei confronti di un proprio dipendente per aver registrato in modo occulto una conversazione avvenuta nei locali aziendali, tra il direttore del personale ed una dipendente addetta al medesimo ufficio. Procedimento che si era concluso con l'irrogazione della sanzione conservativa della sospensione dal lavoro. Il lavoratore impugnava giudizialmente il provvedimento, con domanda tesa a ottenere la declaratoria di illegittimità sia in primo che in secondo grado veniva respinta. Il lavoratore decideva così di ricorrere in cassazione a resisteva la società con proprio controricorso. Entrambe le parti depositavano memorie. La Corte di Cassazione, investita della causa, evidenzia che la rigida previsione del consenso del titolare dei dati personali subisce "deroghe ed eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito" (cfr. Cass., Sez. U., 8 febbraio 2011, n. 3034). Tale principio si fonda sull'esigenza imprescindibile di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra, dovendosi contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio. È stato, quindi, precisato che l'utilizzo, a fini difensivi, delle registrazioni di colloqui intercorsi sul luogo di lavoro tra un dipendente e i suoi colleghi non richiede il consenso delle persone presenti. Tali registrazioni fonografiche, infatti, rientrano tra le riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c. e costituiscono una prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come in quello penale (cfr. Cass. n. 27424/2014; Cass. n. 9526/2010 e Cass. n. 27157/2008). È stato, altresì, chiarito che l'ipotesi derogatoria prevista dall'art. 24 D.Lgs. 196/2003 di prescindere dal consenso trova applicazione anche quando il trattamento dei dati, pur non riferendosi direttamente a una delle parti del giudizio in cui avviene la produzione, risultino necessari per far valere o difendere un diritto. In tali casi, il trattamento è lecito purché i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (cfr. la sopra richiamata Cass., Sez. U., n. 3033/2011; Cass. n. 17204/2013 e Cass. n. 18443/2013). Inoltre, si evidenzia che il diritto di difesa non si esaurisce in sede processuale ma si estende anche a tutte quelle attività dirette all'acquisizione di prove utilizzabili in giudizio, anche se svolte prima della formale instaurazione della controversia mediante citazione o ricorso (cfr. la già citata Cass. n. 27424/2014). Alla luce di tali premesse, è stata ritenuta legittima e, dunque, inidonea ad integrare un illecito disciplinare, la condotta del lavoratore che abbia effettuato registrazioni di conversazione per tutelare la propria posizione in azienda e per precostituirsi un mezzo di prova. Tale condotta, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente rispetto alle finalità perseguite, risponde alle esigenze connesse al legittimo esercizio di un diritto, risultando coperta dall'efficacia scriminante ex art. 51 c.p., norma di portata generale nell'ordinamento e non limitata al solo ambito penalistico (cfr. Cass. n. 27424/2014). È stato anche sottolineato che l'applicazione dei sopracitati principi richiede un attento e proporzionato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali, quali la garanzia della libertà personale, intesa come diritto alla riservatezza e alla protezione delle comunicazioni, da una parte e del diritto alla difesa, dall'altra. Questo bilanciamento deve fondarsi su una rigorosa valutazione del requisito della pertinenza, intesa come diretta e necessaria strumentalità della registrazione rispetto alla finalità difensiva, secondo l'orizzonte interpretativo sopra delineato. Ciò richiede una scrupolosa contestualizzazione della vicenda concreta, al fine di verificare la legittimità dell'utilizzo del mezzo in relazione alle esigenze di tutela del diritto fatto valere (cfr. Cass. n. 31204/2021). Nel caso di specie, il lavoratore ha invocato la scriminante di cui all'art. 24 del D.Lgs. 196/2003 nonché quella di cui all'art. 51 c.p. adducendo che la registrazione di cui è causa era stata effettuata a seguito del rinvenimento nel marzo 2016, nel proprio fascicolo personale, di una nota di demerito di cui gli era stata consegnata solo una copia parziale. Tale nota, dichiarata poi illegittima dalla Corte d'appello con propria sentenza, era stata ritenuta dal lavoratore stesso significativa del “clima” aziendale in essere nei suoi confronti. Egli, inoltre, aveva aggiunto che, all'epoca della registrazione, i precedenti disciplinari non erano limitati alle sanzioni irrogate nel 2012 ma comprendevano anche le sanzioni adottate nel 2014. La Corte d'appello ha accertato che la registrazione della conversazione tra il direttore del personale e la collega (a cui era estraneo il lavoratore) era stata effettuata nel marzo 2016, con una la durata di circa due ore. È stato anche rilevato che: 
all'epoca non vi era alcun contenzioso pendente tra il lavoratore e la datrice di lavoro; 
l'ultima sanzione disciplinare irrogata risaliva ad ottobre 2012 ed era motivata dal mancato rispetto del turno lavorativo e dall'abbandono anticipato del posto di lavoro; 
solo con il ricorso del giugno 2018 il lavoratore aveva impugnato la sanzione disciplinare del 2012, chiedendo, altresì, il risarcimento dei danni da condotte vessatorie e producendo la registrazione della citata conversazione. 
Orbene, secondo i giudici di merito, la registrazione, non realizzata in pendenza di un procedimento giurisdizionale o in vista di una sua imminente introduzione e al fine di precostituire mezzi di prova utili alla difesa in quella sede, aveva una finalità meramente esplorativa e in nessun modo interferiva con i fatti posti a base dell'illecito disciplinare sanzionato nel 2012. Pertanto, considerate le modalità e finalità, la registrazione non risultava in alcun modo pertinente e funzionale all'esercizio del diritto di difesa ma, al contrario, realizzava un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali di correttezza e fedeltà, legittimando come proporzionata l'irrogazione della sanzione conservativa. La Corte di Cassazione ritiene che la significativa distanza temporale tra il momento della registrazione illecita (2016) e la proposizione del ricorso (2018), unitamente all'assenza di un collegamento sostanziale tra la registrazione stessa e l'oggetto del ricorso medesimo, hanno indotto i giudici di appello, in linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità, a escludere la sussistenza dei presupposti necessari per considerare scriminata la violazione del diritto alla riservatezza altrui. In considerazione di quanto sopra esposto la Corte di Cassazione respinge il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo alle spese del giudizio. 

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL