Licenziamento illegittimo se il CCNL punisce l’infrazione con una sanzione conservativa

Licenziamento illegittimo se il CCNL punisce l’infrazione con una sanzione conservativa

  • 1 Settembre 2025
  • Pubblicazioni
Nel caso oggetto dell'ordinanza della Cassazione n. 20394 del 21 luglio 2025, una società avviava un procedimento disciplinare nei confronti di un proprio dipendente reo di aver rivolto gravi frasi minacciose ad un collega più giovane e privo di stabilità contrattuale, durante lo svolgimento dell'attività lavorativa. All'esito del procedimento la società disponeva il suo licenziamento per giusta causa che veniva dal lavoratore impugnato giudizialmente. Il provvedimento espulsivo veniva ritenuto legittimo sia in primo che in secondo grado, seppur “derubricato” a licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con il riconoscimento del periodo di preavviso. Secondo la Corte d'appello le espressioni utilizzate dal lavoratore erano particolarmente gravi, in quanto aventi un duplice intento “diseducativo”, da un lato miravano a rendere il collega infedele al datore di lavoro intimandogli di ridurre il suo standard di produttività e, dall'altro, perseguivano la finalità di sottrarsi al controllo datoriale, determinando così un'inammissibile interferenza con l'organizzazione aziendale. Avverso la sentenza di merito il lavoratore proponeva ricorso per cassazione a cui resisteva la società con controricorso. La decisione della Corte di Cassazione. La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi, ricorda che la nozione di giusta causa di licenziamento – intesa come fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” – rientra tra le c.d. clausole generali, ossia disposizioni a contenuto generico che necessitano di essere specificate in sede interpretativa. Tale attività ermeneutica si realizza attraverso la valorizzazione di fattori esterni relativi alla coscienza generale e di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Dalla natura legale della nozione di giusta causa discende che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza solo esemplificativa che non preclude al giudice un'autonoma valutazione circa l'idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario che sottende un normale rapporto di lavoro. In sostanza, la valutazione della giusta causa di recesso rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, il quale è tenuto a valorizzare elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie. Tale valutazione deve essere coerente con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, laddove dovessero risultare idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. È stato, infatti, evidenziato come il potere del giudice di valutare la legittimità del licenziamento disciplinare, in particolare sotto il profilo della proporzionalità della sanzione, possa esercitato anche alla luce delle previsioni contenute nei contratti collettivi. Tale potere trova il suo fondamento normativo nell'art. 30 L. 183/2010 allorquando al comma 3 dispone che "nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni" (cfr. da ultimo Cass. n. 11665/2022). Si tratta, tuttavia, di un principio che non trova applicazione quando la previsione negoziale ricollega ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solo una sanzione conservativa ovvero quando il “comportamento possa essere sussunto nell'ambito di una clausola generale ed elastica del CCNL”. Per giurisprudenza costante, infatti, il datore di lavoro non può intimare un licenziamento disciplinare quando per l'infrazione commessa esso rappresenta una sanzione più grave di quella prevista dalla fonte collettiva. Ed infatti, condotte che pur astrattamente sarebbero suscettibili di integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di recesso ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l'autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative. Nel caso in esame, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno effettuato la loro valutazione alla luce dei sopra citati principi ed ancorato la gravità della condotta e la connessa proporzionalità della sanzione espulsiva (peraltro, riqualificata come licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con diritto del lavoratore al pagamento del periodo di preavviso) a due elementi, e in particolare:  
l'essersi concretizzata  la condotta nella violazione di regole basilari che regolano la convivenza sociale, poste a tutela della libertà morale della persona quale bene giuridico primario e tali da ricevere protezione di rango penale (la condotta gravemente minacciosa e intimidatoria); 
il rilievo dell'ingerenza nella organizzazione datoriale, con riguardo alle indicazioni date al collega (fra l'altro in condizioni di precarietà, vista la sua condizione non ancora stabilizzata all'interno dell'impresa) circa le modalità di fruizione delle pause e i limiti di contenimento della produttività dei dipendenti. 
A ciò aggiungasi che il lavoratore non ha indicato disposizioni del CCNL di settore, né tipizzate né di carattere generale, che prevedessero per la condotta contestata una sanzione di tipo conservativo, tale da escludere la legittimità della misura espulsiva adottata nei suoi confronti. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo alle spese del giudizio.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL