Uno dei requisiti soggettivi alla base della tutela per la disoccupazione è costituito dall’involontarietà di tale stato in cui si trova il cittadino (articolo 1, comma 2 lettera c, del Dlgs 181/2000, richiamato dall’articolo 3, lettera a, del Dlgs 22/2015). In particolari situazioni (quali dimissioni per motivi di salute o impossibilità di proseguire l’attività lavorativa per la chiusura di unità produttive o trasferimento della sede) il tema della involontarietà necessariamente deve essere interpretato in concreto alla luce del contesto nel quale cessa il rapporto di lavoro. In questa prospettiva deve essere affrontato il tema dell’accesso alla disoccupazione per i lavoratori detenuti, all’interno delle dinamiche dei rapporti di lavoro svolti in regime di detenzione (o equiparati). Sul punto si sono fronteggiate due tesi. Da una parte l’estraneità dell’istituto della disoccupazione indennizzabile al lavoro carcerario (si veda Cassazione penale 18505/2006 e Corte d’appello di Firenze 377/2025). L’indennità di disoccupazione è misura pensata per un mercato del lavoro di tipo concorrenziale, se non altro perché implica, tra i requisiti per l’accesso, l’attiva ricerca di un impiego o l’inserimento del lavoratore nel tessuto produttivo (articolo 7 del Dlgs 22/2015). Sul fronte opposto si afferma, invece, la piena compatibilità della Naspi con il lavoro carcerario (si veda la giurisprudenza citata da Cassazione 19737/2025 e 19746/2025). La tesi muove dal presupposto che il lavoratore sia diventato inoccupato per ragioni esterne alla sua volontà, così come accade nei casi in cui si sia dimesso per giusta causa o abbia risolto consensualmente il proprio rapporto di lavoro per effetto di un comportamento imputabile al datore che abbia comunque reso impossibile la prosecuzione del rapporto (Cassazione 396/2024). Occorre tuttavia distinguere: la liberazione del detenuto per fine pena comporta l’estinzione del rapporto di lavoro, per effetto di un evento non determinato dalla volontà del lavoratore né da questi totalmente prevedibile. In questo caso, dunque, la situazione appare del tutto equiparabile a quella del lavoro all’esterno. Il vero problema si pone nelle ipotesi in cui il lavoratore cessi (o comunque sospenda) il rapporto di lavoro continuando il regime di restrizione della libertà personale (detenzione o altro). Recentemente la Cassazione (4741/2025), ad esempio, si è occupata del caso di un detenuto assegnato a uno specifico progetto con contratto di lavoro a tempo determinato, ritenendo che fosse integrato il presupposto giustificativo del trattamento Naspi, secondo il principio per cui l’involontarietà dello stato di disoccupazione è compatibile con lo stato di detenzione tutte le volte in cui la causa di cessazione del rapporto di lavoro intramurario sia estranea alla sfera di disponibilità del lavoratore. Di fronte alla diversa ipotesi della temporanea inattività del lavoratore nell’ambito del meccanismo di rotazione imposto ai detenuti, secondo criteri che tengono conto dell’anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione, dei carichi familiari e delle abilità lavorative possedute, le recenti indicazioni della Cassazione vanno in senso opposto. L’aspetto rilevante in questa situazione è il cosiddetto metus datoriale, al quale il lavoratore rimane comunque sottoposto nei periodi di intervallo, essendo sostanzialmente fuori della possibilità del detenuto la previsione circa i tempi e l’ammissione all’attività lavorativa, oltre che la natura delle mansioni da svolgere in concreto nel successivo periodo di applicazione. Questo fa sì che le cessazioni intermedie, ove la rotazione si applichi effettivamente, si configurino alla stregua di sospensioni di un unico rapporto di lavoro, in un unico contesto di detenzione, all’interno di un rapporto di lavoro unitario caratterizzato dalla modalità di avvicendamento tra i detenuti, in rotazione e in attesa di chiamata secondo il programma dell’istituto penitenziario (si veda anche Cassazione 19007/2024). La Cassazione 19746/2025 può dunque affermare che, in presenza di una struttura organizzata del lavoro sotto forma di rotazione prima dell’effettiva cessazione dello stato di detenzione, deve escludersi la presenza di periodi di lavoro paragonabili a quelli dei contratti a termine. Il rapporto è unitario e strutturato con avvicendamenti per i quali vi è uno stato di aspettativa ricorrente da parte del lavoratore alla chiamata per il suo periodo di rotazione. Tuttavia, in concreto, il rapporto di lavoro può cessare per altre cause, compatibili con lo stato di detenzione (oltre, naturalmente alla cessazione definitiva della detenzione): l’età, lo stato di salute, l’idoneità alle mansioni, il trasferimento in altri istituti, il termine finale delle rotazioni. In altri termini, occorre andare alla ricerca di una effettiva (e non temporanea) cessazione del rapporto di lavoro, per verificare la compatibilità di questa situazione con il godimento dell’indennità (così come accade nella cessazione del contratto a termine legato ad uno specifico progetto). La sentenza 19737/2025, in questa prospettiva, si occupa dell’accesso alla Naspi in caso di lavoratore scarcerato e ammesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare, affermando che, anche in questo caso, è possibile rintracciare con chiarezza il profilo della non volontarietà della perdita dell’occupazione. In sostanza, è onere dell’amministrazione individuare il momento nel quale il rapporto di lavoro, sostanzialmente unico, debba considerarsi concluso, qualora ciò sia avvenuto prima della cessazione dello stato di detenzione, anche in concorso di altre circostanze (età, stato di salute, idoneità al lavoro, ammissione a misura alternativa).
Fonte: SOLE24ORE