Obbligo di repêchage e rifiuto di mansioni inferiori: legittimo il licenziamento

Obbligo di repêchage e rifiuto di mansioni inferiori: legittimo il licenziamento

  • 5 Agosto 2025
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Nel caso oggetto dell'ordinanza della Corte di Cassazione n. 19556 del 15 luglio 2025, un lavoratore, con mansioni di direttore commerciale, impugnava giudizialmente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli dalla società sua datrice di lavoro. La Corte d'appello territorialmente competente, in riforma della pronuncia di primo grado, respingeva l'impugnativa proposta dal lavoratore poiché era incontestato e documentato che: 
la società gli avesse offerto, con propria comunicazione, le mansioni di “Responsabile della prenotazione” con inquadramento nel primo livello del CCNL di settore e riconoscimento del corrispondente trattamento economico; 
il lavoratore, con comunicazione inviata via PEC, l'avesse rifiutato, ritenendola non confacente alla sua figura professionale e dichiarandosi disponibile solo “a valutare ruoli di pari livello e pari retribuzione”; 
dopo il licenziamento la società non avesse effettuato nuove assunzioni.
Ad avviso della Corte distrettuale il rifiuto opposto dal lavoratore era idoneo a dimostrare l'avvenuto assolvimento da parte della società degli obblighi di repêchage. Avverso la pronuncia di merito il lavoratore proponeva ricorso in cassazione, affidandosi a 2 motivi, a cui resisteva la società con controricorso.  
In particolare, il lavoratore: 
con il primo motivo eccepiva che la drastica riduzione della retribuzione era pressoché inaccettabile per un Direttore commerciale, e che il rifiuto non poteva avere effetti pregiudizievoli sui suoi diritti, a partire da quello relativo alla contestazione dell'eventuale successivo licenziamento;
con il secondo motivo deduceva l'omesso esame da parte della Corte d'appello di un fatto decisivo per il giudizio, ossia “la possibilità di un utilizzo in altre mansioni, difetta ogni pertinente motivazione”. Obbligo di repêchage. La Corte di Cassazione, investita della causa, ritiene il primo motivo di ricorso infondato, poiché la sentenza impugnata risulta conforme alla giurisprudenza formatasi sul punto. 
Innanzitutto, la Corte di Cassazione richiama il principio elaborato dalle Sezioni Unite per il quale “la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ex art. 3 l. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori; l'arresto riposa sull'assunto razionale dell'oggettiva prevalenza dell'interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall'estinzione del rapporto” (cfr. Cass. n. 7755/1988). Il principio, inizialmente affermato nei casi di sopravvenuta infermità permanente, è stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale. Ciò in quanto sono state ravvisate le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore. Questo orientamento ha anche ricevuto l'avvallo della Corte Costituzionale che, in ossequio alla logica del “male minore”, ha affermato che la tutela della professionalità cede di fronte all'esigenza di salvaguardia di un bene più prezioso, quale il mantenimento dell'occupazione (cfr. Corte Cost. n. 188/2020). In definitiva, il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a trovare possibili situazioni alternative e, ove le stesse comportino l'assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare all'interessato il demansionamento. Quanto detto in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo il datore recedere dal rapporto solo qualora la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore. Orbene, secondo la Corte di Cassazione, la possibilità di un repêchage su mansioni inferiori non è stata introdotta dal D.Lgs. 23/2015 che ha novellato l'art. 2013 c.c., gravando tale adempimento sul datore di lavoro sin dalla sopra citata sentenza delle Sezioni Unite, risalente al 1988. Demansionamento. L'art 2103 c.c. nella sua nuova formulazione al comma 2 stabilisce che “ in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale ”. Tale disposizione consente, dunque, l'assegnazione a mansioni inferiori anche senza il consenso del lavoratore . E ciò non esclude che tra le modifiche organizzative ivi previste rientri anche la soppressione del posto che incide sulla posizione del singolo tanto da renderlo potenziale destinatario del provvedimento espulsivo (cfr. Cass. n. 31561/2023). Tuttavia, va precisato che l'ambito di operatività delle due fattispecie non è sovrapponibile, rispondendo a due ratio diverse. Nel primo caso, prevale l'interesse del datore di lavoro che, per esigenze organizzative, può unilateralmente adibire il lavoratore a mansioni inferiori, purché rientranti nella medesima categoria legale e con il mantenimento del trattamento economico in godimento. Nel secondo caso, invece, prevale l'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. In questa prospettiva, secondo la logica del “male minore”, può risultare giustificata la rinuncia sia alla professionalità acquisita sia a parte della retribuzione precedentemente goduta. Resta ferma, però, la facoltà del lavoratore di non accettare la proposta, con la conseguenza che, in caso di rifiuto, il licenziamento deve ritenersi legittimo. In linea con tale impostazione, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l'obbligo di repêchage, anche ai sensi dell'art. 2103, comma 2, c.c., è limitato “alla ricollocazione in mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore è dotato al momento del licenziamento e che non necessitano di uno specifico consenso” (cfr. Cass. n. 17036/2024 e Cass. n. 10627/2024). Pertanto, nel caso di specie, la disponibilità del lavoratore di “valutare ruoli di pari livello e pari retribuzione” si è tradotto in un rifiuto della soluzione alternativa offerta dalla società, legittimando così il licenziamento intimatogli. Assenza di nuove assunzioni. Passando alla trattazione del secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione ritiene che sia inammissibile. A suo parere non è corretto affermare che l'assenza di nuove assunzioni dopo il licenziamento sia irrilevante ai fini della prova del repêchage. La stessa giurisprudenza di legittimità ha affermato che il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare l'impossibilità di repêchagedel dipendente licenziato, senza che su questi incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (cfr. Cass. n. 5592/2016). Trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro può assolvervi fornendo fatti e circostanze esistenti, di tipo indiziario o presuntivo, idonei dimostrare l'effettiva impossibilità di ricollocare internamente il lavoratore individuato (cfr. Cass n. 10435/2018). A tal fine, è usuale dimostrare che, nella fase concomitante e successiva al recesso, per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal lavoratore licenziato (cfr. Cass. n. 6497/2021). In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso con condanna del lavoratore al pagamento delle spese di lite.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL