Burnout e scatto d'ira sul lavoro: quando è sproporzionato il licenziamento

Burnout e scatto d'ira sul lavoro: quando è sproporzionato il licenziamento

  • 21 Luglio 2025
  • Pubblicazioni
Nel caso oggetto dell'ordinanza n. 17548 del 30 giugno 2025, una società aveva avviato un procedimento disciplinare nei confronti di un proprio dipendente reo di aver sbraitato in un evidente scatto di ira, bestemmiando contro i colleghi, mancando di rispetto al proprio superiore e prendendosela con gli oggetti circostanti e dando calci. Il procedimento si era concluso con il licenziamento per giusta causa che veniva dallo stesso lavoratore impugnato giudizialmente. Il Tribunale adito riteneva la condotta assunta non integrante un inadempimento così grave da essere qualificabile come giusta causa, in quanto la società non aveva provato il danno alla produzione o ai macchinari né che il medesimo avesse realizzato aggressioni fisiche o verbali ai colleghi e al superiore. Pertanto, tenuto conto dell'anzianità di servizio, della proposta conciliativa di riassunzione intervenuta pochi giorni dopo il recesso e delle disposizioni del CCNL di settore, il Tribunale confermava l'ordinanza emessa nella fase sommaria di annullamento del licenziamento, disponendo la reintegrazione nel posto di lavoro. L'ordinanza sommaria veniva revocata dal Tribunale sotto il profilo del quantum, con modifica - in senso alla società più favorevole - del criterio di calcolo delle 12 mensilità previste dall'art. 18 c. 4 L. 300/1970, tenendo conto dell'aliunde perceptum. La posizione del Tribunale veniva confermata anche in appello. Secondo la Corte distrettuale la condotta contestata al lavatore, pur sussistente, non poteva essere ricondotta alle fattispecie per le quali il CCNL di settore prevedeva il recesso immediato bensì a quella sanzionata, nelle ipotesi più gravi, con la multa e, nelle ipotesi più lievi, con la sospensione. A conferma dell'assenza di una condotta così da grave da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro, la Corte distrettuale valorizzava anche la proposta di riassunzione intervenuta pochi giorni dopo il recesso da parte della società. Avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso in cassazione la società. La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, osservato che il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, sottolineando che una simile valutazione, implicante un apprezzamento dei fatti alla base della controversia, è sindacabile in sede di legittimità solo quando la sentenza impugnata “sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell'essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili” (cfr. per tutte Cass. n. 14811/2020). Secondo la Corte di Cassazione, nella fattispecie in esame, i giudici di merito hanno adeguatamente considerato le caratteristiche della condotta contestata al lavoratore, giungendo – attraverso una articolata e coerente motivazione – alla conclusione dell'insussistenza della proporzionalità della sanzione espulsiva. Questa valutazione è stata fondata sull' “assenza di prova di danno ai prodotti e alle linee produttive”, sulla “mancata prova di turbamento ed allarme in capo ai colleghi”, sulla “mancata prova della aggressione fisica dei colleghi o di mancato rispetto del superiore, oltre alla provata cessazione della condotta a seguito dell'intervento”, nonché, sul piano della prognosi rispetto a future condotte del lavoratore, sulla proposta di riassunzione intervenuta pochi giorni dopo il recesso da parte della società. In relazione alle tutele applicabili tra quelle previste dall'art. 18 c. 4-5 L. 300/1970, così come novellato dalla L. 92/2012, la Corte distrettuale ha richiamato la giurisprudenza di legittimità per la quale è consentita al giudice la sussunzione della condotta accertata in giudizio nella previsione contrattuale che punisce l'illecito con una sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali ed elastiche. Tale attività di “interpretazione e sussunzione” non “trasmoda” nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, “restando nei limiti dell'attuazione del giudizio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo” (cfr. per tutte Cass. n. 11665/2022; Cass. n. 10435/2023). La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 128/2024, intervenendo sulla disciplina del D.Lgs. 23/2015, ha affermato che “la previsione a opera della contrattazione collettiva di sanzioni solo conservative implica la preclusione della sanzione espulsiva, qual è il licenziamento”, evidenziando la contraddittorietà all'art. 39 Cost. di una legge che si sovrapponga “(alla) valutazione circa la sproporzione del licenziamento effettuata dalle parti sociali, perché comprimerebbe ingiustificatamente l'autonomia collettiva e il ruolo essenziale della stessa riconosciuta nella disciplina del rapporto di lavoro”. Da tali principi discende che la scala valoriale tracciata dalla contrattazione collettiva, e in particolare la tipizzazione delle condotte sanzionabili con misure conservative, rappresenta un parametro vincolante che il giudice è tenuto a considerare con attenzione e rigore interpretativo, al fine di ricostruire correttamente la graduazione degli illeciti disciplinari delineata dall'autonomia collettiva, cui corrisponde il potere sanzionatorio attribuito al datore di lavoro. Passando al caso di specie, la Corte d'appello - una volta esclusa la proporzionalità del licenziamento rispetto alla concreta gravità della condotta, esauritasi in un “episodio isolato di perdita di controllo riconducibile allo stress di lavoro” - ha effettuato un'approfondita analisi delle disposizioni contrattuali relative alle infrazioni punite con misure conservative. E, in tale contesto, essa ha illustrato le ragioni per cui la condotta del lavoratore “fosse riconducibile alle previsioni contrattuali volte, proprio attraverso l'impiego di formule generali ed elastiche, ad includere condotte costruite attorno alla violazione di generiche e residuali previsioni comportamentali”. In particolare, i giudici di merito hanno ritenuto che, in assenza di prove, non fosse possibile ricondurre la condotta del lavoratore, pur se sussistente, alle ipotesi sanzionate dalla contrattazione collettiva con il recesso immediato. La Corte di Cassazione ha così concluso per il rigetto del ricorso proposto dalla società.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL