Diritto al pasto: no a limitazioni in base alla fascia oraria

Diritto al pasto: no a limitazioni in base alla fascia oraria

  • 10 Luglio 2025
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Nel caso oggetto dell'ordinanza della Cassazione n. 16938 del 24 giugno 2025, una lavoratrice conveniva in giudizio l'azienda ospedaliera presso la quale era in forza affinché venisse accertato e dichiarato il suo diritto a fruire della pausa mensa e/o a godere di misure sostitutive, quali l'erogazione del buono pasto oppure la corresponsione del controvalore in denaro, oltre a vederla condannata al risarcimento del danno subito. La lavoratrice, dipendente turnista, eccepiva di osservare turni dalle ore 7 alle ore 13, dalle ore 13 alle ore 20 e dalle 20 alle 7 senza non godere del servizio mensa istituito dall'Azienda per i suoi dipendenti. L'azienda ospedaliera, a fronte dell'accoglimento del ricorso della lavoratrice in primo grado, adiva la Corte d'appello che confermava la decisione del Tribunale. La stessa impugnava così anche la decisione di merito in cassazione, affidandosi a due motivi, e depositava la propria memoria. Con il primo motivo, l'azienda ospedaliera contestava la violazione e falsa applicazione dell'art. 29 del CCNL comparto Sanità del 7 aprile 1999, come modificato e integrato dagli accordi del 20 settembre 2001 e del 31 luglio 2009, nonché dell'art. 8 D.Lgs. 66/2003, eccependo che: 
non sussiste un diritto del dipendente al servizio mensa o alle misure sostitutive in assenza della relativa contrattazione integrativa e che il giudice di merito, nel formulare la sua decisione, non aveva tenuto conto del fatto che, secondo la disciplina collettiva, l'eventuale diritto a detto servizio era, comunque, subordinato alla “particolare articolazione dell'orario di lavoro”. In particolare, detto diritto non era previsto per coloro che prestavano la propria attività lavorativa nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto, ben potendo provvedervi prima o dopo il pranzo; 
il diritto alla mensa non avrebbe potuto essere identificato con quello alla pausa, chiedendo, anche l'applicazione in via analogica dell'art. 45 del CCNL Comparto Regioni e Autonomie Locali del 14 settembre 2000 per il quale il servizio mensa spetta ai dipendenti che prestano attività lavorativa al mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane. Evidenziava, infine, che i dipendenti turnisti non erano titolari del diritto alla pausa. 
Con il secondo motivo, l'Azienda si doleva del fatto che la Corte distrettuale aveva monetizzato i buoni pasto e aveva riconosciuto il diritto della lavoratrice al risarcimento richiesto senza tener conto della contestazione da essa stessa mossa e dell'assenza di prova del pregiudizio effettivamente subito. La lavoratrice intimata non svolgeva difesa. La decisione della Corte di Cassazione. La Corte di Cassazione adita afferma che il diritto alla fruizione del buono pasto non ha natura retributiva, rappresentando un'erogazione di carattere assistenziale, collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale e finalizzata a conciliare le esigenze di servizio con quelle quotidiane del lavoratore (cfr. Cass. n. 31137/ 2019). Proprio in ragione di tale natura, il riconoscimento del buono pasto è strettamente subordinato alle previsioni della contrattazione collettiva che lo disciplina (cfr. anche Cass. n. 22985/2020). Nella fattispecie in esame viene, pertanto, in rilievo l'art. 29 del CCNL, risultando, invece, non rilevante ai fini del giudizio il richiamo operato dall'azienda ospedaliera all'art. 45 del CCNL del 14 settembre 2000 poiché concernente un diverso comparto. Ciò detto, la questione, secondo la Corte di Cassazione, consiste nello stabilire quale sia la “particolare articolazione dell'orario” che, ai sensi del comma 2 del predetto art. 29 del CCNL, riconosce ai dipendenti presenti in servizio il diritto alla mensa. L'art. 26 del CCNL recante la disciplina dell'orario di lavoro non fornisce indicazioni utili in merito al diritto alla mensa o al buono pasto. Esso si limita a stabilire l'orario settimanale di 36 ore e a fissare criteri generali per la sua distribuzione. A parere della Corte di Cassazione un significativo elemento interpretativo può, però, rinvenirsi nel comma 3 dell'art. 29 del CCNL allorquando viene stabilito che il pasto deve essere consumato al di fuori dell'orario di lavoro, con una durata massima di 30 minuti, rilevata mediante i consueti strumenti di controllo dell'orario. Da tale previsione, secondo la Corte di Cassazione, si desume che la fruizione del pasto — e, conseguentemente, il diritto alla mensa o al buono pasto — si colloca all'interno di un intervallo non lavorato. Altrimenti, non sarebbe possibile effettuare alcuna verifica in ordine alla sua effettiva durata. Si può, dunque, convenire sul fatto che la “particolare articolazione dell'orario di lavoro” è quella collegata alla fruizione di un intervallo di lavoro. E, al riguardo, assume rilievo l'art. 8 D.Lgs. 66/2003 secondo il quale il lavoratore ha diritto a una pausa qualora la durata della prestazione giornaliera superi le 6 ore, al fine di consentire il recupero delle energie psicofisiche e l'eventuale consumazione del pasto. Le modalità e la durata di tale pausa sono demandate alla contrattazione collettiva; in mancanza di disciplina, la pausa deve avere una durata minima di dieci minuti e deve essere collocata tenendo conto delle esigenze tecniche del ciclo lavorativo. Anche nel dato normativo, dunque, la consumazione del pasto risulta strettamente collegata alla fruizione di una pausa, che deve avvenire all'interno dell'orario di lavoro. Ove le parti sociali avessero inteso subordinare il diritto alla mensa a specifiche fasce orarie, tale volontà sarebbe stata espressamente formalizzata mediante l'individuazione delle suddette fasce, evenienza che, tuttavia, non risulta essere verificata. Questa lettura è in linea con i principi affermati nella sentenza della Cassazione n. 31137/2019, pronunciata in riferimento all'art. 40 del CCNL del 28 maggio 2004 del Comparto Agenzie fiscali. Nello stesso solco interpretativo si colloca successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 5547/2021), la quale ha chiarito che, ai fini del riconoscimento del buono pasto nei confronti di un dipendente con turnazioni articolate nelle fasce orarie 13-20 e 20-7, le “particolari condizioni di lavoro” richiamate dall'art. 29 del devono essere intese con riferimento alla fruizione effettiva della pausa lavorativa. Ciò, indipendentemente dal fatto che tale pausa si collochi nelle fasce orarie comunemente destinate alla consumazione del pasto o che il lavoratore abbia eventualmente potuto consumare il pasto al di fuori dell'orario di lavoro. Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ritiene che la Corte d'appello abbia correttamente applicato la disciplina contrattuale, offrendo una lettura coerente con l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità sviluppatasi in materia, rigettando così il primo motivo di ricorso. Con riferimento al secondo motivo di impugnazione, la Corte di Cassazione evidenzia anche che nel caso di specie non vi è stata una vera e propria “monetizzazione” dei buoni pasto, nel senso di un riconoscimento del loro valore come corrispettivo della prestazione lavorativa. Contrariamente a quanto sostenuto dall'Azienda ospedaliera, il valore dei buoni pasto è stato utilizzato esclusivamente come parametro di riferimento per determinare, in via equitativa, l'entità del pregiudizio subito dalla lavoratrice, derivante dalla necessità di provvedere autonomamente ai propri pasti, nonostante la sussistenza del diritto al servizio mensa. Passando alla non contestazione, secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito si sono limiti a darle rilievo solo con riferimento alla durata dei turni e alle giornate in cui si sarebbero svolti per un periodo eccedente le 6 ore. La relativa quantificazione, invece, è stata operata in via equitativa, sulla base delle spese normalmente necessarie per la consumazione dei pasti, e, come tale, non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 341/2025). In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte Cassazione conclude per il rigetto del ricorso, senza alcuna statuizione sulle spese di lite, non avendo la lavoratrice svolto alcuna attività difensiva.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL