L'art. 19 L. 203/2024 (cd. Collegato Lavoro), rubricato “Norme in materia di risoluzione del rapporto di lavoro”, ha colmato il vuoto normativo relativo alla garanzia di autenticità delle dimissioni, che ha permesso a numerosi lavoratori di abusare del sistema per ottenere la NASpI, assentandosi in modo illegittimo senza che tale comportamento potesse essere considerato una forma tacita di dimissioni volontarie. L'applicazione concreta della norma ha evidenziato talune criticità operative e interpretative, tali da rendere necessari specifici approfondimenti. A tal fine, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è intervenuto fornendo indicazioni e chiarimenti destinati a orientare correttamente prassi e comportamenti. In questa sede si esaminano le novità più recenti emerse da tali interventi. La previsione normativa. L'art. 19 del Collegato Lavoro ha previsto una modifica all'art. 26 del D.Lgs. 151/2015, che disciplina la normativa in materia di dimissioni volontarie e risoluzione consensuale. Più nel dettaglio, dopo il comma 7, è stato previsto l'inserimento del comma 7-bis attraverso cui viene disposto che “In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine pre visto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l'impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”. Durata dell'assenza e ricostituzione del rapporto. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, rispondendo ad una richiesta di chiarimenti da parte del Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Consulenti del Lavoro inviata in data 2 aprile 2024, ha fornito talune precisazioni in merito alle indicazioni contenute nella circolare ministeriale n. 6 del 27 marzo 2025 , relative alla procedura di dimissioni per fatti concludenti prevista dall'art. 19. In particolare, con riferimento al limite legale dei 15 giorni di assenza ingiustificata, decorso il quale si palesa la risoluzione di fatto del rapporto di lavoro, è stato precisato che esso “opera in via residuale, in assenza di previsione contrattuale. Tuttavia, l'espressione utilizzata dal legislatore (art. 19, Legge n. 203/2024) per la quale il termine deve ritenersi in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, ha fatto propendere per la considerazione, di prudenza, della non agibilità della previsione di termini inferiori da parte della contrattazione collettiva”. Infatti, benché il tenore letterale dell'art. 19 non disponga espressamente l'inderogabilità del termine dei 15 giorni, il Dicastero ritiene che la norma non consenta interpretazioni peggiorative della posizione del lavoratore. Per quanto attiene, invece, alle conseguenze per il mancato ripristino del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro, il Ministero ha ritenuto necessario precisare che qualora, superato il termine per l'assenza ingiustificata e comunicata la circostanza all'Ispettorato territorialmente competente, quest'ultimo verifichi l'insussistenza dei presupposti richiesti dal nuovo comma 7-bis art. 26 D.Lgs. 151/2015, il rapporto di lavoro dovrà pur sempre essere ricostituito per iniziativa del datore di lavoro. Tuttavia, nel caso quest'ultimo non ritenesse valide le ragioni del lavoratore, il rapporto di lavoro non potrà ricostituirsi in automatico. Nella diversa ipotesi in cui il lavoratore, successivamente all'avvio della procedura di cui al nuovo comma 7-bis - ma prima che la stessa abbia prodotto il suo effetto dismissivo - comunichi le proprie dimissioni, queste ultime produrranno gli effetti previsti dalla legge dal momento del loro perfezionamento. Nell'eventualità di dimissioni per giusta causa, la verifica della sussistenza delle ragioni che hanno portato al recesso del lavoratore potrà essere oggetto in un successivo contraddittorio tra le parti, presse le opportune sedi, anche quella giudiziale. Le disposizioni del CCNL sulle assenze ingiustificate possono dar luogo a dimissioni di fatto anziché ad un licenziamento? Secondo il Ministero del Lavoro la risposta è negativa, come affermato nella risposta del 24 giugno 2025 nella relativa FAQ pubblicata sul sito dell'Ufficio Relazioni Pubbliche del Ministero (URP Online). È utile rammentare che la circolare n. 6/2025 del Dicastero ha chiarito in modo piuttosto netto che, affinché si possa configurare una cessazione del rapporto per comportamenti concludenti – e non un licenziamento – è necessario che la contrattazione collettiva faccia esplicito riferimento a tale possibilità. Inoltre, il termine previsto per legittimare questa ipotesi non può comunque essere inferiore a quello stabilito dalla legge, che è di almeno quindici giorni. L'elemento determinante è rappresentato dal silenzio del lavoratore, che non fornisce alcuna spiegazione per l'assenza e non manifesta in modo diretto la volontà di interrompere il rapporto. Da ciò discende che occorre un tempo congruo, più esteso rispetto a quello previsto per il licenziamento disciplinare, capace di rendere evidente e non equivocabile l'intenzione di non riprendere servizio. Nelle ipotesi di licenziamento, infatti, la disciplina prevista dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori garantisce un contraddittorio tra le parti e consente di valutare nel merito le giustificazioni addotte. Nei casi di dimissioni di fatto, invece, anche per evitare un incremento del contenzioso legato a tale disposizione, è ragionevole fare affidamento su un termine più ampio, che possa confermare in modo inequivoco l'effettiva volontà del lavoratore di interrompere definitivamente il rapporto. Peraltro, il Ministero ha altresì precisato che la lettura fornita nella circolare n. 6/2025 non appare superata dalla sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento che – attenendosi al petitum della controversia – ha adottato un provvedimento di reintegrazione, dichiarando l'illegittimità del licenziamento e negando completamente la configurabilità delle dimissioni di fatto nel caso concreto. Al riguardo, appare altresì opportuno riflettere in merito ad un ulteriore dettaglio interpretativo. L'art. 19 L. 203/2024 non ha formulato un richiamo ai termini previsti dalla contrattazione collettiva in materia di licenziamento riferendosi, invero, al “termine previsto dal contratto collettivo”(ossia per il caso di specie). Laddove avesse voluto intendere che il termine era da considerarsi quello previsto per il licenziamento lo avrebbe esplicitamente indicato. Nel silenzio del legislatore, il termine cui la norma fa riferimento non può che essere quello che la contrattazione collettiva dovrà prevedere per lo specifico caso di risoluzione di rapporto per fatti concludenti del lavoratore. Da ultimo, il Ministero ha chiarito come sia principio generale di sistema che, in mancanza di previsione esplicita, le norme si interpretinoin favore della parte più debole che nel rapporto di lavoro è evidentemente il lavoratore. In mancanza di contrattazione collettiva al riguardo il termine di salvaguardia non può che essere quello che il legislatore ha inserito con la novella dell'art. 26 D.Lgs. 151/2015 al comma 7-bis.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL