Un solo limite di assenze per dimissioni di fatto e licenziamento
- 24 Giugno 2025
- Pubblicazioni
A giudicare dal rumore che provoca il tema delle dimissioni di fatto (articolo 19 della legge 203/2024), il fenomeno sembra meno residuale di quello che alcuni tentano di far passare. Norma che nasce per mettere ordine a pratiche illecite, così come definite negli atti parlamentari durante l’iter di approvazione, a scapito di aziende e lavoratori onesti che si comportano nel rispetto della legge. Su questi presupposti non dovrebbe destare stupore o risultare eversivo interpretare l’articolo 19 nel senso che le attuali clausole dei Ccnl sulle assenze ingiustificate possano essere considerate idonee a perfezionare una dimissione di fatto anziché un licenziamento. D’altronde, se oggi chi sparisce dall’azienda può subire la sanzione massima del nostro diritto del lavoro, a maggior ragione si potrà applicare (senza indebolire la tutela) una presunzione relativa rispetto alla quale è sempre ammessa la prova contraria. Infatti, nel licenziamento è presente la procedura di garanzia prevista dall’articolo 7 dello Statuto, nelle dimissioni di fatto c’è sempre la procedura che consente di provare l’impossibilità di comunicare l’assenza: bilanciamento voluto dal Parlamento che ha modificato la norma originaria per un sistema più garantista. In più, nelle dimissioni di fatto c’è una tutela aggiuntiva rappresentata dall’Ispettorato del lavoro che può indagare sull’assenza prospettando al datore di lavoro gli esiti dell’indagine. Certo il datore di lavoro può o meno accettare le giustificazioni fornite dal lavoratore rispetto ai fatti contestati, ovvero accettare le giustificazioni che hanno reso impossibile comunicare l’assenza. Ma anche il lavoratore può adire, in entrambi i casi, l’autorità giudiziaria per il ripristino del rapporto di lavoro in caso di diniego da parte del datore di lavoro. Quindi, a ben vedere, in caso di dimissioni di fatto c’è una tutela rafforzata rispetto al licenziamento. Detto ciò, ci si chiede perché il legislatore avrebbe voluto affidare alle parti sociali la negoziazione di un nuovo termine specifico (chi sa in quanti anni), quando il fatto da tutelare è urgente e riguarda le risorse pubbliche? Perché il legislatore avrebbe dovuto correre il rischio di non vedere mai applicata questa parte della norma, qualora le parti non avessero un interesse a trovare un accordo sul nuovo termine? O peggio ancora, perché il legislatore avrebbe dovuto correre il rischio di vedere applicata questa parte della norma a macchia di leopardo laddove solo in alcuni settori si raggiungesse l’accordo, creando così condizioni di serie A e di serie B? Tanto valeva allora lasciare solo il termine di legge. La sentenza del Tribunale di Trento è la prima che affronta il tema delle dimissioni di fatto e ha riconosciuto valido il termine di oltre tre giorni fissato attualmente dal Ccnl del settore commercio. Questa posizione del Tribunale di Trento è per definizione aderente alla norma e non può ritenersi in contrasto con la circolare 6/2025 del ministero del Lavoro. Semmai, alla luce proprio della sentenza, bisognerebbe chiedersi su quali presupposti il ministero del Lavoro ha fornito una interpretazione non aderente della norma con il rischio di indebolirne gli effetti.
Fonte: SOLE24ORE