Le assenze ingiustificate iniziate prima dell’entrata in vigore del Collegato lavoro (legge 203/2024, operativa dal 12 gennaio 2025) non possono concorrere al perfezionamento della fattispecie delle dimissioni di fatto. Inoltre, il termine da prendere come riferimento per la maturazione delle dimissioni è quello che regola l’assenza ingiustificata nel ccnl applicato ai fini disciplinari, e solo in via residuale si applica il termine di 15 giorni previsto dalla legge. Infine, una procedura avviata in assenza di tali presupposti integra un licenziamento e deve essere trattata come tale, con tutte le conseguenze sul piano sostanziale e processuale.Sono questi i principi giuridici enunciati dal Tribunale di Trento con la sentenza 87 del 5 giugno 2025, una delle prime pronunce sulla nuova disciplina delle dimissioni per fatti concludenti.Il caso riguardava una lavoratrice assente dal 7 gennaio 2025. Il datore di lavoro – una cooperativa – appena entrata in vigore la riforma aveva comunicato all’Ispettorato territoriale le «dimissioni per fatti concludenti» sulla base del nuovo articolo 26, comma 7-bis, del Dlgs 151/2015, ritenendo decorso il termine previsto dal ccnl.Il Tribunale ha però dichiarato illegittima la procedura, disponendo la reintegrazione della lavoratrice per tre ordini di motivi.Il primo principio riguarda l’ambito temporale di applicazione della norma. Richiamando il principio tempus regit actum e l’articolo 11 delle preleggi, il giudice ha escluso che le assenze iniziate prima del 12 gennaio 2025 possano concorrere alla maturazione della soglia prevista per attivare la presunzione di dimissioni. Trattandosi di condotte che, all’epoca, avevano esclusivamente rilevanza disciplinare, sarebbe irragionevole e lesivo del principio di legalità attribuire loro ex post un effetto estintivo del rapporto.Il secondo chiarimento riguarda l’interpretazione del rinvio ai «termini previsti dal contratto collettivo». Il Tribunale ha ritenuto che tale richiamo non consenta una libertà arbitraria di fissazione delle soglie, ma debba riferirsi ai giorni di assenza che, secondo il ccnl applicato, giustificano un licenziamento. Nel caso di specie, il Ccnl terziario considera l’assenza ingiustificata «oltre tre giorni nell’anno solare» come giusta causa di recesso. Ne consegue che la soglia rilevante è il quarto giorno di assenza, non il quindicesimo.Questo passaggio, seppure operato in maniera incidentale e senza uno specifico approfondimento, si pone in diretto contrasto con la circolare 6/2025 del ministero del Lavoro, secondo cui il termine minimo di 15 giorni sarebbe inderogabile e, inoltre, non sarebbe riferibile alla disciplina del licenziamento disciplinare. Il Tribunale ha invece dato per scontato che la legge preveda due soglie: una più breve, prevista dal ccnl, e una residuale e più lunga, pari a 15 giorni, applicabile solo in assenza di disciplina collettiva.Il terzo principio affermato dalla sentenza attiene agli effetti di una comunicazione datoriale di «dimissioni» priva di fondamento. Il giudice ha ritenuto che, in assenza di una valida manifestazione di volontà da parte della lavoratrice (né telematica, né per fatti concludenti), la reiezione della prestazione lavorativa equivale a un licenziamento orale, da considerarsi nullo. Da ciò è derivata la condanna del datore alla reintegrazione, al risarcimento e al versamento dei contributi.Si tratta di una pronuncia destinata a far discutere, non solo perché affronta per la prima volta i contorni applicativi della nuova norma, ma anche perché si pone in contrasto, su alcuni punti importanti, con l’interpretazione ministeriale. Una situazione sicuramente non facile da gestire per gli operatori, chiamati a dover scegliere quale interpretazione adottare in un contesto ancora così instabile.
Fonte: SOLE24ORE