Nel caso oggetto dell'ordinanza n. 13691 del 22 maggio 2025 della Corte di Cassazione, la Corte d'appello territorialmente competente, nel confermare il provvedimento del giudice di primo grado, aveva respinto le domande proposte da una lavoratrice, dirigente pubblica, nei confronti della propria datrice di lavoro. Domande volte ad ottenere il pagamento delle ferie residue, in quanto la stessa era stata nell'impossibilità di goderne, trovandosi in stato di restrizione in carcere. Secondo la Corte distrettuale, la dirigente, data la sua posizione apicale, aveva avuto il potere di scegliere il periodo di ferie, fornendo una interpretazione del divieto di monetizzazione previsto per il pubblico impiego (art. 5 c. 8 DL 95/2012) tale “da ricomprendere tutte le vicende estintive del rapporto di lavoro alle quali il lavoratore concorre attivamente mediante compimento di atti (dimissioni) oppure attraverso propri comportamenti incompatibili con la permanenza del rapporto (…)”, in linea con le indicazioni fornite dal Dipartimento della Funzione pubblica (parere n. 40033/2012). Avverso la sentenza di secondo grado, la lavoratrice ricorreva in cassazione a cui resisteva con controricorso la società. La Corte di Cassazione, investita della causa, ritiene necessaria una sintetica ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale, tanto a livello nazionale quanto europeo. A tal fine, la Corte di Cassazione prende le mosse dalla Dir. UE 104/93, poi confluita nella Dir. UE 88/2003, la quale all'art. 7 c. 2 prevede che “Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un'indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro". Il divieto di monetizzazione, ripreso dal D.Lgs. n. 66/2003 (art. 10 c. 2) che ha dato attuazione alla direttiva, è finalizzato a garantire il godimento effettivo delle ferie, la cui funzione è quella tutelare la salute e la sicurezza del lavoratore, consentendogli un adeguato recupero psico-fisico. Si sottolinea che la corresponsione di una indennità sostitutiva non può ritenersi equivalente poiché non permette al lavoratore di reintegrare le energie psico-fisiche. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l'eccezione al divieto di monetizzazione trova applicazione esclusivamente per le ferie maturate e non godute alla data di cessazione del rapporto e non per quelle riferibili agli anni antecedenti. Rispetto a queste ultime, grava sul datore di lavoro l'onere di provare l'effettiva fruizione. Ciò non significa che il lavoratore rimanga privo di tutela qualora non dimostri che la mancata fruizione dipende da un inadempimento del datore di lavoro. Ma la mancata fruizione non può essere imputata al datore di lavoro quando il lavoratore riveste la qualifica di dirigente e, per la posizione apicale ricoperta, abbia la possibilità di autodeterminare il proprio periodo di astensione. In tale ipotesi, il mancato godimento delle ferie si configura come una scelta autonoma del dirigente, escludendo così un inadempimento colpevole da parte del datore di lavoro, salvo che il dirigente medesimo non provi l'esistenza di esigenze aziendali imprevedibili e indifferibili che gli abbiano impedito di fruire delle stesse. Resta inteso che, ai sensi dell'art. 2697 c.2 c.c., il potere del dirigente di autodeterminarsi in ordine ai tempi e alle modalità di fruizione delle ferie costituisce un'eccezione, la cui allegazione e prova incombono sul datore di lavoro. Invece, l'esistenza di esigenze aziendali eccezionali e oggettive, tali da impedire la fruizione delle ferie, costituisce una contro-eccezione che il dirigente è tenuto a dimostrare (cfr. Cass. n. 4920/2016). Sono stati, quindi, formulati i seguenti principi di diritto che devono orientare l'interpretazione del diritto interno in conformità al diritto dell'Unione europea:
“le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale ed irrinunziabile del lavoratore (anche del dirigente) e correlativamente un obbligo del datore di lavoro; il diritto alla indennità finanziaria sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro è intrinsecamente collegato alle ferie annuali retribuite;
è il datore di lavoro il soggetto tenuto a provare di avere adempiuto al suo obbligo di concedere le ferie annuali retribuite;
la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova: di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie, se necessario (ossia in considerazione della struttura aziendale, anche) formalmente, e ciò in esercizio dei propri doveri di vigilanza ed indirizzo sul punto; di averlo nel contempo avvisato - in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad assicurare il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire - del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato."
In sintesi, gli orientamenti giurisprudenziali, nazionali e comunitari impongono di consentire l'operatività del divieto di monetizzazione ove il lavoratore, anche dirigente, abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare il proprio diritto e vi abbia consapevolmente rinunciato. Ad avviso della Corte di Cassazione, dunque, la Corte territoriale non si è conformata a questa interpretazione e ai più recenti orientamenti elaborati dalla giurisprudenza di legittimità; di conseguenza, i giudici di legittimità concludono per la cassazione della sentenza impugnata ed il suo rinvio alla Corte d'appello in diversa composizione.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL