Il Tribunale di Trieste, con la pronuncia 57/2025 del 7 maggio, ha ritenuto sussistente demansionamento e mobbing perpetrato ai danni di una lavoratrice da parte dell’amministratore delegato della società per cui lavorava e ha giudicato nullo, perché ritorsivo, il licenziamento intimatole per giustificato motivo oggettivo a causa dell’asserita soppressione della sua posizione lavorativa, con conseguente reintegra nel precedente posto di lavoro. Il Tribunale, sulla base delle prove offerte e dell’escussione testimoniale, ha ritenuto che la ricorrente fosse stata demansionata, in quanto, per quasi cinque mesi antecedenti al licenziamento è stata privata della parte professionalmente più rilevante del proprio mansionario. Inoltre ha sostenuto, anche sulla base di quanto statuito dalla Suprema corte (15400/2020 e 8661/2019), che, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non basta accertare l’esistenza e il ricorrere della ragione tecnico organizzativo posta formalmente a fondamento del licenziamento, ma è necessario altresì verificare che realmente tale motivo abbia inciso sulla soppressione della posizione lavorativa presa in considerazione. Nel caso specifico ha giudicato che tale incidenza causale non ricorreva, in quanto la posizione lavorativa occupata dalla ricorrente, al momento del licenziamento, era stata concretamente soppressa per effetto di illecite condotte datoriali. Il Tribunale ha poi ritenuto che la dipendente avesse provato la sussistenza delle condotte abusive perpetrate ai suoi danni e che queste costituissero il substrato materiale nel quale si concretizza il mobbing, il quale ha contenuto atipico e le singole condotte, valutate singolarmente, possono essere prive di connotati di illiceità e formalmente legittime, assumendo dimensione illecita ove siano parte di una strategia di aggressione al lavoratore connotata da un intento persecutorio. Quindi, perché vi sia mobbing è necessario che sussistano determinati elementi qualificanti:
una serie di comportamenti di carattere persecutorio, anche leciti, posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
l’intento vessatorio, ossia la coscienza e la volontà di arrecare danno al lavoratore sotto vari profili;
l’eventus damni, ossia la lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e nella propria dignità, elementi tutti che il Tribunale ha ritenuto sussistenti nel caso sottoposto al suo esame.
Il Tribunale, in premessa, ha anche ricordato che il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è nullo, quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso, in base al combinato disposto degli articoli 1418, secondo comma, 1345 e 1324 del Codice civile, essendo stato tale tipo di licenziamento ricondotto, dalla giurisprudenza di legittimità, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dagli articoli 4 della legge 604/1966, 15 della legge 300/1970 e 3 della legge 108/990. Nel caso specifico è poi stata disposta la reintegra e il risarcimento danni in base a quanto previsto dall’articolo 2 del Dlgs 23/2015, detratto l’aliunde perceptum.
Fonte: SOLE24ORE