Con sentenza n. 8154/2025, la Cassazione ha ribadito che il licenziamento per giusta causa può considerarsi legittimo anche in assenza di una condanna penalmente rilevante: questo perché la gravità della condotta va valutata in relazione alla tenuta del vincolo fiduciario e non è vincolata alla sua qualificazione penalistica. Un lavoratore era stato licenziato in tronco per aver indebitamente prelevato una somma pari a 1.300 euro dalla cassa del punto vendita presso il quale abitualmente lavorava. La società datrice di lavoro aveva ritenuto legittimo il recesso in base alle disposizioni del codice disciplinare aziendale, che prevedeva la massima sanzione espulsiva per l’“appropriazione nel luogo di lavoro di beni o denaro aziendale o di terzi, anche di modico valore”, considerando decisiva la lesione del vincolo fiduciario. Sia il giudice di primo grado che la Corte d’appello avevano rigettato il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento. Nel promuovere il ricorso per cassazione, il dipendente contestava l’interpretazione del termine “appropriazione” contenuto nel codice disciplinare, sostenendo che esso dovesse essere letto secondo i requisiti previsti dall’art. 646 c.p., e cioè in presenza di dolo specifico, distrazione e violazione dell’obbligo restitutorio. La Corte di Cassazione ha respinto le censure sollevate dal lavoratore tracciando una netta distinzione tra la nozione penalistica di appropriazione indebita e quella giuslavoristica di giusta causa. Secondo la Corte, infatti, la valutazione delle condotte disciplinarmente ascritte al lavoratore non può essere operata tenendo conto degli elementi, di derivazione penalistica, che contraddistinguono la fattispecie delittuosa dell’approvazione indebita, in quanto a ciò osta la peculiarità del rapporto che intercorre tra il datore di lavoro e il lavoratore, tutto incentrato sulla permanenza del vincolo fiduciario, più che sulle finalità di politica generale sottese al diritto penale. Nel concetto di giusta causa ex art. 2119 c.c., infatti, confluiscono “…tutti i comportamenti che determinano il venir meno del rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore tali da non consentire la prosecuzione del rapporto, rispetto ai quali risulta tendenzialmente indifferente il rilievo, penale o meno, delle condotte; ciò anche in presenza di ipotesi astrattamente assimilabili sul piano del fatto materiale all’illecito penale…”. Tale conclusione – prosegue la sentenza – rappresenta “…il logico corollario delle differenti finalità alle quali è ispirato il diritto penale nella configurazione delle singole fattispecie di reato rispetto al diritto del lavoro nell’ambito del quale la condotta disciplinarmente rilevante … è quella che, comunque, configuri grave negazione dei doveri scaturenti dal rapporto di lavoro ed in quanto tale giustificativa della immediata espulsione del lavoratore … a prescindere dal rilievo penale della stessa…”. La Corte di Cassazione, in altri termini, ribadisce il concetto secondo cui il giudice del lavoro è sempre chiamato a valutare ed accertare, in forza di una autonoma valutazione, se i fatti addebitati al lavoratore rivestano “il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro” ovvero se la condotta sia “idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto agli obblighi lavorativi” (Cass. 8154/2025). Sebbene possano riguardare i medesimi fatti materiali, diritto penale e diritto del lavoro rispondono a logiche differenti, che non sempre si sovrappongono. In primo luogo, in ambito giuslavoristico non trova applicazione il principio della presunzione di non colpevolezza, che è invece tipico del processo penale. La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che tale principio, previsto in ambito penale, non può essere esteso al giudizio civile o alle controversie lavoristiche. Il datore di lavoro, pertanto, può procedere al licenziamento per giusta causa anche prima della conclusione dell’eventuale procedimento penale, purché sussistano fatti idonei a compromettere il rapporto fiduciario (Cass. 19 giugno 2014 n. 13955; Cass. 21 settembre 2016 n. 18513). Il giudice del lavoro, chiamato a valutare la legittimità del recesso, dovrà accertare autonomamente la fondatezza delle contestazioni disciplinari e la loro gravità, senza essere vincolato all’esito del giudizio penale. Un ulteriore elemento di differenziazione è rappresentato dalla (possibile) rilevanza del danno cagionato dalla condotta illecita del dipendente. Mentre in ambito penale si può escludere la punibilità in presenza di un’offesa di particolare tenuità (art. 131-bis c.p.), nel diritto del lavoro anche un danno minimo può legittimare il licenziamento, qualora riveli una condotta gravemente inadempiente e incompatibile con la prosecuzione del rapporto (Cass. 25 febbraio 2025, n. 4945). Infine, anche lo standard probatorio differisce sensibilmente tra i due ambiti: nel processo penale vige la regola della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre nel giudizio civile, e quindi anche in quello lavoristico, è sufficiente che i fatti siano ritenuti “più probabili che non”, secondo un criterio di verosimiglianza prevalente (Cass. 29 settembre 2021, n. 26476). La sentenza della Cassazione si inserisce, in modo del tutto coerente, nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che tiene opportunamente distinti gli ambiti del diritto penale e del diritto del lavoro. Il diritto penale persegue finalità di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza giuridica, mirando alla repressione di condotte offensive secondo criteri di tipicità, offensività e colpevolezza. Il diritto del lavoro, invece, è primariamente volto a tutelare l’equilibrio fiduciario tra datore e prestatore di lavoro, che costituisce la base imprescindibile per la tenuta del rapporto. In questa prospettiva, è del tutto legittimo che una condotta in ipotesi non penalmente rilevante possa comunque essere ritenuta disciplinarmente grave, ove tale da incrinare in modo irreversibile la fiducia del datore di lavoro. Il giudice del lavoro, infatti, non è chiamato a perseguire interessi di ordine generale, ma deve svolgere una valutazione autonoma e mirata alle peculiarità del rapporto di lavoro, incentrata sull’affidabilità futura del dipendente e sulla sua adesione ai doveri contrattuali.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL