La Corte di Cassazione, con ordinanza 8 marzo 2025 n. 6197, afferma che l'accertamento della gravità di un handicap a una certa data con previsione di rivedibilità futura, non implica per il lavoratore la perdita dei permessi di cui alla Legge n. 104/1992, se la visita di revisione non viene effettuata. Nel caso in esame un lavoratore era stato riconosciuto affetto da un handicap grave sulla base di un accertamento effettuato nel 2001, con rivedibilità a 12 mesi. Nel 2005, il lavoratore era stato assunto da una Università, ottenendo, sulla base della certificazione del 2001, i permessi di cui all'art. 33 della L. n. 104/1992. Successivamente, l'Università aveva contestato la spettanza dei predetti permessi, poiché nel 2008 la competente Commissione, nel respingere la sua domanda di aggravamento (che sarebbe stata poi riconosciuta nel 2009), aveva escluso, a suo dire, anche la condizione di gravità. A fronte di ciò, il lavoratore si è rivolto all'autorità giudiziaria affinché venisse accertato il suo diritto a fruire dei permessi ex L. n. 104/1992 da aprile 2005 ad agosto 2008, ma la sua domanda in primo grado è stata respinta. Il lavoratore è, così, ricorso in appello. La Corte distrettuale, alla luce della documentazione prodotta, ha riformato la decisione del Giudice di prime cure, affermando che i giudizi espressi dal 2005 al 2009 non avevano riguardato anche la gravità. La valutazione era rimasta circoscritta alla sola domanda di aggravamento, esclusa fino a quando nel 2009 non era stata accolta. Secondo la Corte d'Appello, la mancata sottoposizione alla visita di revisione non aveva comportato la perdita dei benefici concessi. A conferma, la Corte ha richiamato l'art. 25, comma 6 bis, del D.L. 90/2014 (conv. con mod. nella L. 114/2014) che - sebbene entrato in vigore successivamente alla vicenda di che trattasi - “esprime un principio di logica e di giustizia sostanziale che deve ispirare anche l'interpretazione della normativa previgente, concludendo (…) che il venir meno dei benefici debba essere ricollegato alla assenza della situazione di gravità e non alla mera scadenza della certificazione”. L'Università soccombente ha proposto ricorso in cassazione, affidandosi a 4 motivi, a cui ha resistito con controricorso il lavoratore. Entrambe le parti hanno presentato memorie. La Corte di Cassazione sottolinea che il fulcro della questione è se, in presenza di patologie o stati che teoricamente potrebbero migliorare, l'accertamento effettuato in una determinata data con previsione di rivedibilità futura comporti un riconoscimento limitato nel tempo (e, quindi, la perdita dei benefici una volta scaduto il termine senza che venisse effettuata la revisione) o se la mancata attivazione della procedura non comporti il venir meno dei benefici, la cui cessazione dipenderebbe solo dal sopravvenire di un diverso successivo accertamento. Al riguardo, la Corte di Cassazione riprende l'art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, in vigore dal 2000, che richiede per i disabili l'adozione di “soluzioni ragionevoli” in ambito di lavoro. Come sottolineato dalla Corte di Giustizia 21 ottobre 2021, C-824/19, questa disposizione deve essere interpretata “alla luce dell'articolo 26 della Carta, il quale sancisce il principio dell'inserimento delle persone con disabilità affinché esse beneficino di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”. La Corte di Giustizia aggiunge, altresì, che l'interpretazione della Direttiva deve essere conforme alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (c.d. Convenzione di New York) del 13 dicembre 2006 che:
-all'art. 5, par. 3, dispone che per “promuovere l'uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli” e
-all'art. 27 riconosce alle persone con disabilità il diritto al lavoro, su base di uguaglianza con gli altri e “segnatamente il diritto di potersi mantenere attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, inclusivo e accessibile alle persone con disabilità”.
Questi principi sono pienamente coerenti con i dettami costituzionali che tutelano i diritti inviolabili e gli obblighi di solidarietà (cfr. art. 2 Cost.). Ne deriva che quanto stabilito dall'art. 25, comma 6 bis, del D.L. 90/2014 (conv. con mod. nella L. 114/2014) - sebbene non applicabile ratione temporis al caso in esame - è operante anche per il periodo precedente, giustificando la decisione presa dalla Corte territoriale. Infatti, la soluzione prospettata della Corte distrettuale è una soluzione ragionevole, che pone a carico degli enti preposti gli oneri di controllo e verifica degli sviluppi della situazione psicofisica della persona disabile, evitando di gravarla di incombenze o di iniziative non necessarie. In sostanza, anche anteriormente al succitato art. 25, la “rivedibilità” stabilita in riferimento ad un certo lasso temporale, non implica la perdita dei diritti conseguenti all'accertamento, qualora la visita di revisione non venga effettuata; è l'ente pubblico competente che deve darvi corso. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dall'Università, le cui spese del giudizio seguono la soccombenza.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL