È illegittimo il licenziamento del dipendente che, dopo aver ottenuto il congedo parentale per prendersi cura del figlio, si sposta dall’Italia al suo Paese di origine al fine di assistere la madre malata, lasciando il minore in Italia con la moglie, in quanto ha agito per soddisfare esigenze di solidarietà familiare e, quindi, non ha abusato del diritto. Queste le conclusioni cui è giunta la Corte di cassazione con l’ordinanza 6993/2025 con riferimento a un lavoratore straniero che era stato licenziato per il presunto abuso del congedo parentale. Questo lavoratore, dopo aver richiesto un congedo parentale per assistere il figlio, e dopo aver effettivamente iniziato a occuparsi del minore, durante gli ultimi 10 giorni di congedo era ritornato nel suo Paese d’origine (il Marocco) per assistere la madre, le cui condizioni di salute si erano improvvisamente aggravate, lasciando il figlio in Italia con la moglie. La Corte d’appello di Trento aveva annullato il licenziamento, rilevando che il breve periodo in cui il lavoratore era tornato nel suo Paese era stato determinato dalla necessità di assistere la madre. Pertanto, la condotta contestata non appariva connotata da intrinseco disvalore sociale, trattandosi comunque di una assenza temporanea per ragioni familiari urgenti e contingenti, riconducibili nell’alveo dei doveri di solidarietà familiare. La Corte di cassazione conferma tale impostazione, partendo dalla considerazione che, nella vicenda, viene in gioco l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà familiare rilevanti sul piano costituzionale. Secondo la Corte, la condotta tenuta dal lavoratore non risulta contraria allo spirito della disciplina legale, in quanto il congedo familiare è stato fruito in una situazione di fatto particolare e urgente, allo scopo di assicurare, per un periodo contenuto e in via di eccezione, il contemperamento tutti i diversi valori compresenti nella concreta vicenda. Una lettura avvalorata, secondo la Corte, dal fatto che l’obiettivo principale dell’assistenza al minore sia stato sempre e comunque e assicurato in ambito familiare. La figura dell’“abuso del permesso”, che consente il licenziamento per giusta causa, non può esistere, prosegue l’ordinanza, quando la finalità della condotta sia stata quella di obbedire ad altri valori impellenti e non di pregiudicare interessi altrui. Va escluso, per la Corte, qualsiasi collegamento automatico tra la mancata prestazione dell’assistenza al minore e la figura dell’abuso del congedo: è sempre necessario valutare, oltre alla sua oggettiva durata, anche la motivazione per cui l’assistenza non sia avvenuta. L’abuso del diritto, quindi, necessita sul piano soggettivo necessario un elemento psicologico, di natura intenzionale o dolosa, che deve essere accertato mediante presunzioni semplici, dalle quali sia possibile individuare la finalità di pregiudicare interessi altrui. Il nesso causale fra l’assenza dal lavoro e l’assistenza alla persona che legittima la richiesta del permesso deve essere valutato, quindi, non soltanto in termini quantitativi, ma anche qualitativi, e in modo relativo, tenendo conto del contesto e di tutte le circostanze del caso concreto (viene richiamata una giurisprudenza conforme, Cassazione 29062/2017). Sulla base di tale lettura, la Corte conclude rilevando che il “fatto” disciplinare contestato non esiste né sul piano oggettivo e tanto meno su quello soggettivo, non avendo voluto il lavoratore commettere alcun abuso ossia distorcere per finalità vietate l’uso del congedo accordatogli dall’ordinamento.
Fonte: SOLE24ORE