La Corte di Cassazione, con ordinanza 23 febbraio 2025 n. 4741, ha ribadito che il lavoratore detenuto ha diritto alla NASpI se la causa di cessazione del rapporto di lavoro intramurario risulta estranea alla sua sfera di disponibilità. Nel caso in esame un lavoratore detenuto in una casa circondariale aveva prestato la propria attività lavorativa, in forza di un contratto a termine della durata di otto mesi, nell'ambito del progetto “Casse Ammende” che finanzia i progetti lavorativi dei detenuti in Italia. Scaduto il contratto, il lavoratore non si vedeva riconoscere dall'INPS la prestazione NASpI, in quanto detta cessazione non era dovuta all'iniziativa dell'amministrazione penitenziaria ma rientrava nella logica del lavoro a rotazione. Inoltre, a parere dell'Ente, il lavoro in carcere non può essere equiparato al lavoro del libero mercato, presentando anche differenze strutturali, quali la circostanza che i detenuti non sottoscrivono un contratto ma vengono assegnati al lavoro, non ricevono una retribuzione ma una “mercede” inferiore ai limiti della contrattazione collettiva, e soprattutto il lavoro penitenziario ha funzione rieducativa e riabilitativa del condannato. Il lavoratore agiva giudizialmente, vedendo sia in primo ed in secondo grado l'Ente condannato al pagamento della prestazione in questione. L'Inps, avverso la decisione di merito, decideva di proporre ricorso in cassazione a cui resisteva il lavoratore con controricorso. Il lavoro penitenziario. La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, innanzitutto osserva che la disciplina del lavoro intramurario ha subìto modifiche con l'evoluzione dei diritti del lavoratore e l'attuazione del principio costituzionale della finalità rieducativa delle pene detentive. Inizialmente, il lavoro svolto all'interno degli istituti carcerari ed alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria era considerato come parte integrante della pena e uno strumento di ordine e disciplina del detenuto. La Legge n. 354/1975 di riforma del sistema penitenziario ha superato questa impostazione. Nell'ottica di una finalità rieducativa della pena ai sensi dell'art. 27, comma 3, della Cost., il lavoro penitenziario è diventato uno strumento centrale del trattamento del detenuto, finalizzato ad un suo reinserimento nella collettività e ad evitare la sua desocializzazione in conseguenza dello stato di reclusione. Ai detenuti sono stati così riconosciuti una serie di diritti propri dei lavoratori “liberi”, tra i quali la durata delle prestazioni lavorative che non deve essere superiore ai limiti stabiliti dalle leggi vigenti, il riposo festivo (a cui si è aggiunto il diritto al riposo annuale retributivo) e “la tutela assicurativa e previdenziale” a cui si aggiunge la tutela contro gli infortuni e le malattie professionali. In questo contesto, gli interventi della Corte Costituzionale (cfr sentenze n. 1087/1988 e n. 158/2001) hanno confermato il diritto alle ferie e la compatibilità della “mercede” ridotta rispetto al trattamento economico previsto nei contratti collettivi, fermo restando i criteri di sufficienza e adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Cost. Ad avviso della Corte di Cassazione, “il lavoro carcerario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei liberi”. Diritto alla NASpI. La giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto al detenuto che versa in uno stato di disoccupazione involontaria il diritto alla NASpI (cfr Cass. n. 396/2024). La funzione della NASpI è quella di fornire un sostegno al reddito di lavoratori con un rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione. La perdita del lavoro si collega, dunque, alla sfera di iniziativa o influenza del datore o alle sue prerogative imprenditoriale. L'involontarietà ricorre pure nel caso di scadenza della pena e conseguente liberazione del condannato con estinzione del rapporto intramurario. Ciò in quanto si tratta di un evento non determinato dalla volontà del lavoratore né dallo stesso prevedibile in virtù ed a seguito di provvedimenti di modifica/revoca cautelare o di espiazione anticipata in sede esecutiva. Nel caso in esame, il lavoratore è stato assegnato in base ad uno specifico progetto di assunzione a tempo determinato per il quale non assume rilievo la sua “scelta deterministica” sia nella fase genetica del rapporto che in quella conclusiva. La perdita di occupazione è stata involontaria, poiché è dipesa “dalla prerogativa datoriale che non risulta rinnovata con nuova assegnazione in rotazione”. Secondo l'INPS non si è trattata di una “cessazione” del rapporto ma di una “sospensione”, tuttavia, come documentato in atti, è stata rimessa all'Amministrazione penitenziaria, alla cessazione del progetto, la “facoltà di valutare la sussistenza di nuove opportunità di inserimenti lavorativi”. Condizione questa “ostativa ad una programmabile rotazione della stessa prestazione fra detenuti”. Si tratta, pertanto, di una causa di cessazione del rapporto di lavoro intramurario estranea alla sfera di disponibilità del lavoratore. La consapevolezza della scadenza contrattuale, sottolinea la Corte di Cassazione, “non impedisce né di escludere che solo su iniziativa datoriale sia stata resa prevedibile la perdita dell'occupazione né di attivare la tutela per lo stato di disoccupazione che compete anche, per espressa previsione di legge, in relazione ad eventi obiettivi, quale la scadenza del termine apposto al rapporto temporaneo, a prescindere dalla volontà delle parti”. Orbene, ad avviso della Corte di Cassazione, non sussistono elementi che rendono il lavoro carcerario incompatibile con il riconoscimento della NASpI in caso di perdita, atteso che:
(i) lo stesso rientra nel novero dei comuni rapporti di lavoro
(ii) anche ai detenuti viene riconosciuta la tutela assicurativa e previdenziale nonché escluso che la cessazione del rapporto possa considerarsi volontaria. Sulla base di tali presupposti, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto de ricorso presentato dall'INPS e la compensazione delle spese di lite.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL