No al licenziamento per contenuti offensivi nella chat tra colleghi
- 13 Marzo 2025
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Il messaggio contenente espressioni offensive, denigratorie, minatorie e razziste nei confronti del team leader, inviato in una chat WhatsApp tra colleghi, non costituisce giusta causa di licenziamento. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 5936 del 6 marzo 2025.La Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull’illegittimità del licenziamento, già accertata dai giudici d’Appello, irrogato a un lavoratore per aver registrato e inviato, in una chat WhatsApp denominata “Amici di lavoro” – alla quale partecipavano, oltre a lui, altri 13 colleghi – alcuni messaggi vocali contenenti espressioni offensive, denigratorie, minatorie e razziste nei confronti del proprio superiore gerarchico, il team leader. Il fulcro della sentenza in commento è rappresentato dall’articolo 15 della Costituzione, il quale stabilisce che «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili». La Cassazione, innanzitutto, ricorda che la Corte costituzionale, con la sentenza 170/2023, ha chiarito che i messaggi inviati tramite sistemi di messaggistica istantanea rientrano pienamente nella sfera di protezione dell’articolo 15 della Costituzione. Entrando nel merito della fattispecie, la Corte afferma che la condotta contestata rientra indubbiamente nell’ambito di tutela dell’articolo 15 della Costituzione, poiché il messaggio è stato inviato a persone determinate, partecipanti a una chat ristretta tra colleghi di lavoro. Inoltre, le caratteristiche tecniche del mezzo di comunicazione utilizzato, WhatsApp, riflettono in modo inequivoco la volontà del mittente di escludere terzi dalla conoscenza del messaggio e soddisfano il requisito della segretezza della corrispondenza. Anche se la società ricorrente è venuta a conoscenza del contenuto della corrispondenza – destinata a rimanere segreta – per iniziativa di uno dei destinatari, tale circostanza costituisce comunque una violazione del diritto alla segretezza e alla riservatezza della corrispondenza. Ciò che la società ha contestato e qualificato come giusta causa di licenziamento, prosegue la sentenza, è rappresentato esclusivamente dal contenuto della comunicazione, divenuto esso stesso ragione del recesso, trasmessa dal lavoratore tramite WhatsApp, mediante il proprio telefono privato, ai colleghi partecipanti alla chat, e destinata a rimanere segreta. La manifestazione del pensiero attuata attraverso le chat WhatsApp tra colleghi è stata ritenuta dal datore di lavoro una condotta riprovevole. Tuttavia, conclude la Cassazione, «la garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse con il telefono personale a persone determinate e con modalità indicative dell’intento di mantenerle segrete, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza». A nulla rileva, pertanto, il fatto che la società abbia appreso del messaggio per iniziativa di uno dei destinatari.
Fonte: SOLE24ORE