Controlli investigativi sui dipendenti

Controlli investigativi sui dipendenti

  • 14 Febbraio 2025
  • Pubblicazioni
I controlli investigativi effettuati dal datore di lavoro tramite agenzie investigative non sono vietati, a condizione che siano diretti a verificare comportamenti del dipendente che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o attività fraudolente, fonti di danno per il datore di lavoro. A confermarlo è la Corte di Cassazione, con ordinanza 3 febbraio 2025 n. 2565. La Corte d'appello, con propria sentenza, aveva riformato la sentenza emessa dal Giudice di prime cure di accoglimento della domanda di reintegra di un dipendente nel proprio posto di lavoro. In particolare, la Corte distrettuale, dopo aver accertato che il lavoratore in questione durante l'orario di lavoro si era dedicato ad altre attività, pur risultando timbrato il cartellino, aveva ritenuto adeguato il licenziamento per giusta causa intimatogli in ragione della lesione irreparabile del vincolo fiduciario, integrante la sua condotta anche un illecito penale. Il lavoratore decideva così di ricorrere in Cassazione, affidandosi a sette motivi, a cui resisteva controricorso la società datrice di lavoro. Entrambe le parti depositavano memoria. Il lavoratore, tra le altre, si doleva del fatto che la Corte d'Appello aveva basato erroneamente la propria decisione sulla legittimità dei controlli effettuati dall'agenzia investigativa incaricata dalla società, poiché volti ad accertare il corretto adempimento della prestazione lavorativa. Il ricorso a tale forma di controllo, adduceva il lavoratore, è ammesso dalla giurisprudenza solo in presenza di un fondato sospetto di illeciti, e non per finalità esplorative (ossia per verificare l'allontanamento dalla sede di lavoro, che costituisce un mero inadempimento). La Corte di Cassazione, a sostegno della sua decisione, richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale è consentito l'uso di agenzie investigative per finalità difensive, quando sono in gioco atti illeciti o fraudolenti e non Mero adempimento delle obbligazioni lavorative. In sostanza, i controlli investigativi effettuati dal datore di lavoro tramite agenzie investigative non sono vietati, a condizione che siano diretti a verificare comportamenti del dipendente che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o attività fraudolente, fonti di danno per il datore di lavoro. Tali controlli non possono, invece, essere diretti a verificare esclusivamente il corretto adempimento dell'obbligazione contrattuale, in ossequio al divieto sancito dagli articoli 2 e 3 della Legge n. 300/1970, c.d. Statuto dei Lavoratori (cfr. Cass. n. 15094/2018; Cass. n. 3590/2011). È giustificato, quindi, il ricorso a tali strumenti investigativi in presenza del solo sospetto o della mera ipotesti che illeciti siano in corso di esecuzione (cfr Cass. n. 3590/2011). Orbene, secondo la Corte di Cassazione, la sentenza impugnata chiarisce che il controllo investigativo non fu disposto per verificare genericamente l'adempimento della prestazione lavorativa, come sostenuto dal lavoratore, ma specificatamente per rilevare e accertare le (sospette) “condotte fraudolente dei propri dipendenti, tra cui il reclamato (ndr il lavoratore stesso) che marcavano la loro presenza in ufficio mentre in realtà non lavoravano: i cd. “furbetti del cartellino”. Pertanto, evidenzia la Corte di Cassazione, sussistevano pienamente i presupposti per legittimare l'utilizzo dell'agenzia investigativa da parte della società. Ciò in quanto la condotta di chi timbra il cartellino senza essere presente o senza trattenersi sul luogo di lavoro e/o che si allontana per svolgere attività personali, oltre a violare i doveri contrattuali, con rilevanza anche sotto il profilo disciplinare, costituisce un comportamento fraudolento, idoneo a configurare un'ipotesi di truffa aggravata (Cass. n. 17637/2016; Cass. N. 8426/2014). Ad ogni modo, gli addebiti mossi nei confronti del lavoratore sono stati ritenuti fondati non solo sulla base della relazione redatta dall'agenzia investigativa, ma anche sulla base della testimonianza resa in giudizio dall'investigatore e dal complessivo quadro probatorio. Quest'ultimo, secondo la Corte di Cassazione, ha messo in evidenza le contraddizioni e l'inattendibilità dei testi introdotti dal lavoratore nonché la scarsa rilevanza probatoria dei documenti da esso prodotti. In questo contesto, precisa la Corte di Cassazione, il datore di lavoro non era tenuto a mettere a disposizione del lavoratore, già durante il procedimento disciplinare, le fonti di prova su cui avrebbe basato il provvedimento di licenziamento, né tantomeno risulta che tale richiesta fosse stata formalmente avanzata dal lavoratore medesimo nelle more. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo al pagamento delle spese di lite.

Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL