Licenziamento per cessazione attività

Licenziamento per cessazione attività

  • 13 Febbraio 2025
  • Pubblicazioni
Con la sentenza 2301/2025, la Corte di cassazione è tornata a esprimersi sul tema del licenziamento intimato per trasferimento di azienda, soffermandosi in particolare sulla natura del vizio del recesso datoriale e sull’individuazione del soggetto (o soggetti) tenuti a risponderne. Nel merito, una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento intimato sulla base dell’asserita cessazione dell’attività imprenditoriale. Ravvisando invece l’esistenza di una cessione di ramo d’azienda, vista la sostanziale continuazione dell’attività imprenditoriale in capo ad altro soggetto, il Tribunale aveva dichiarato la nullità del licenziamento, condannando il cessionario alla reintegrazione della dipendente. La Corte di appello, pur confermando la sussistenza della continuazione dell’attività d’impresa in capo ad altro soggetto, aveva invece ravvisato una ipotesi di mera illegittimità del recesso datoriale con conseguente applicazione della sola tutela obbligatoria e condanna in solido di cedente (o meglio, l’ex socio unico della società cedente) e cessionario al pagamento della relativa indennità risarcitoria. La pronuncia è stata impugnata in Cassazione da tutte le parti coinvolte sotto tre profili diversi:

il cedente contestando la ravvisata illegittimità del licenziamento;
la lavoratrice rilevando un vizio nella pronuncia della Corte d’appello nella parte in cui non aveva accertato la nullità del licenziamento;
la società cessionaria lamentando l’erronea valutazione della Corte d’appello laddove aveva proceduto con la condanna in solido con il cedente al pagamento dell’indennità risarcitoria.
Superato agilmente il motivo formulato dal cedente, che richiedeva un inammissibile sindacato sulla valutazione di merito delle Corti inferiori relativo alla sussistenza del trasferimento di azienda, la Cassazione si è soffermata soprattutto sui motivi di ricorso proposti dalla lavoratrice e dalla società cessionaria, giungendo così a ribadire e consolidando rilevanti principi di diritto. Nello specifico, con riferimento al ricorso incidentale della lavoratrice, la Corte ha confermato la sentenza di appello, ribadendo l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il licenziamento intimato per trasferimento di azienda non può essere ritenuto nullo, benché viziato, dando dunque luogo alle sole tutele indennitarie (si veda Cassazione 4699/2021; 5177/2019; 11410/2018; 6969/2013). L’articolo 2112 del Codice civile, infatti, non pone un generale divieto di recesso datoriale in caso di trasferimento del complesso aziendale, ma si limita a escludere che la vicenda traslativa possa di per sé costituire motivo di licenziamento. È dunque esclusa la tutela prevista dall’articolo 18, comma 1, della legge 300/1970, che opera la reintegra solo in casi tassativi, ovverosia il licenziamento discriminatorio, quello determinato da motivo illecito determinante e «negli altri casi di nullità previsti dalla legge». In assenza di espressa declaratoria di nullità, dunque, la fattispecie non può che essere ricondotta a una mera carenza di giustificato motivo del recesso datoriale.  Dall’altra parte, la Corte ha accolto il motivo di ricorso avanzato dalla società cessionaria, riformando la sentenza di appello in base a un’articolata ma convincente argomentazione. Secondo la Corte, rifacendosi a un consolidato orientamento di legittimità, se il licenziamento è dichiarato nullo «il rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisce in capo al cessionario», che subentra in tutti i rapporti dell’azienda ceduta nello stato in cui si trovano (Cassazione 6387/2016; 4130/2014; 23533/2013). Questo perché l’articolo 2112 del Codice civile trova applicazione anche nei confronti dei rapporti che non sono de facto operanti al momento del trasferimento, ma restano in atto de iure per effetto di controversia giudiziaria – anche se instaurata successivamente al trasferimento (Cassazione 8039/2022; 1220/2013). Tale principio non vale però laddove il licenziamento non sia colpito da dichiarazione di nullità e trovi applicazione una tutela meramente obbligatoria quale quella disciplinata dall’articolo 8 della legge 604/1966 (Cassazione 404/2023). In questi casi, infatti, il licenziamento è comunque idoneo a risolvere il rapporto al momento dell’intimazione, che avviene prima del trasferimento. Analogamente, il lavoratore licenziato prima del trasferimento non può far valere le pretese relative all’indennità di mancato preavviso nei confronti del cessionario, data la natura obbligatoria e non reale dell’istituto. Stante la natura obbligatoria della tutela derivante da licenziamento illegittimo, ma non dichiarato nullo, esclude la continuazione del rapporto con la cessionaria ex articolo 2112 del Codice civile: il cessionario non sarà pertanto in questo caso tenuto al pagamento in solido dell’indennità risarcitoria, che ricadrà esclusivamente sull’ex datore di lavoro cedente.

Fonte: SOLE24ORE