La legge 104/1992 prevede il riconoscimento di permessi retribuiti per assistere familiari con disabilità. Tale norma consente di accedere a un beneficio significativo, il cui costo economico è a carico dell’Inps. Tuttavia, l’esercizio di tale diritto ha evidenziato, nel tempo, dei fenomeni di utilizzo improprio dei permessi da parte degli interessati, con conseguente coinvolgimento della magistratura per la verifica dell’eventuale mancato rispetto delle prerogative indicate nella legge 104/1992, da parte dei dipendenti beneficiari. L’esame delle recenti decisioni giurisprudenziali in materia risulta utile per delineare i confini al di là dei quali si è in presenza di abuso da parte dei lavoratori. Inutile dire che la questione è complessa, in quanto la legge si limita a stabilire il diritto di fruire dei permessi per ragioni assistenziali e, conseguentemente, la norma non aiuta a definire a quali condizioni si è in presenza o meno di esercizio abusivo da parte degli interessati. Al riguardo, la giurisprudenza, in prevalenza, ha privilegiato una lettura non particolarmente restrittiva della norma in esame nei confronti dipendenti interessati, stabilendo che l’assistenza non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione, ma deve necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il familiare disabile non sia in condizioni di compiere autonomamente. In tal senso, la Corte di cassazione, con l’ordinanza 26417/2024, ha stabilito che l’assistenza al familiare disabile non richiede una presenza continua e ininterrotta presso il domicilio di quest’ultimo, ma può comprendere una gamma di attività collaterali (quali piccole commissioni per effettuare la spesa, recarsi in posta, in farmacia o da medici), purché potenzialmente finalizzate al benessere e alla cura del familiare da assistere. Secondo quanto statuito dalla sentenza, inoltre, non integra l’ipotesi di abuso la prestazione di assistenza al familiare disabile in orari non integralmente coincidenti con il turno di lavoro, in quanto si tratta di permessi giornalieri su base mensile e non su base oraria. E ancora, la Suprema corte, con l’ordinanza 24130/2024, ha precisato che le attività personali di natura marginale, purché non incompatibili con l’obiettivo assistenziale, non configurano un abuso. La decisione ha, inoltre, ribadito che i permessi, pur essendo destinati all’assistenza, non sono vincolati a una rigida applicazione temporale e spaziale: è legittimo, infatti, che il lavoratore utilizzi i permessi anche per esigenze che non siano strettamente assistenziali, purché non prevalgano sull’obiettivo per cui è stato concesso tale diritto. Viceversa, l’abuso si configura qualora le attività svolte dal dipendente si discostino in maniera significativa dalla finalità assistenziale. A titolo esemplificativo, è stato considerato illegittimo il comportamento del dipendente che aveva usufruito dei giorni di permesso ma, anziché assistere la madre, si era recato al mercato, al supermercato e infine al mare con la famiglia (Cassazione 17102/2021). In tali casi, il datore di lavoro è stato ritenuto legittimato ad adottare provvedimenti disciplinari che, nelle ipotesi più gravi, possono prevedere il licenziamento per giusta causa. Beninteso che l’accertamento del comportamento del dipendente non è per nulla agevole, poiché richiede verifiche da effettuarsi al di fuori del luogo di lavoro. A tal fine, pertanto, il datore può ricorrere anche alle agenzie investigative. Tuttavia, è necessario che tali investigazioni vengano condotte nel pieno rispetto delle normative vigenti, evitando intrusioni indebite nella sfera privata del dipendente e limitandosi esclusivamente a verificare eventuali abusi. Perché siano legittime, le indagini private devono, inoltre, essere giustificate da sospetti concreti evitando che sfocino in un controllo indiscriminato del lavoratore.
Fonte: SOLE24ORE