In caso di conversione di un rapporto a termine in un rapporto a tempo indeterminato per la nullità del termine finale apposto, lo stesso deve ritenersi come mai estinto, rimanendo invariato l'obbligo del datore di lavoro di versare i relativi contributi previdenziali. A dichiararlo è la Cassazione con ordinanza 10 gennaio 2025 n. 602. Un lavoratore aveva ottenuto, con sentenza pubblicata il 16 dicembre 2018 e passata in giudicato il 19 dicembre 2019, la conversione del proprio rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dalla prima assunzione risalente al 5 luglio 1995, la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna della datrice di lavoro al risarcimento dei danni pari alle retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto alla reintegra, con rivalutazione monetaria ed interessi legali. In un successivo giudizio, giunto poi in appello, il lavoratore aveva chiesto la quantificazione dell'importo per il periodo dall'11 settembre 1995 al 5 marzo 2019 (data di effettiva riammissione in servizio), avanzando nei confronti della datrice di lavoro, in contraddittorio con l'INPS, “domanda riguardante la copertura assicurativa per il periodo di sospensione del rapporto ed altre subordinate volte al conseguimento della rendita vitalizia di cui alla L. n. 1338/1992 in relazione a contributi prescritti ovvero, in subordine, al risarcimento del danno da mancata copertura assicurativa integrale”. La Corte distrettuale aveva respinto l'eccezione del lavoratore secondo cui il termine prescrizionale decorreva dal passaggio ingiudicato della sentenza di conversione del rapporto di lavoro, considerando maturata la prescrizione (rivendicata dalla società) sino al 30 aprile 2024 poiché il primo atto interruttivo risaliva al 28 aprile 2009, e condannandola “al versamento della copertura assicurativa sulle retribuzioni” per il periodo successivo. La Corte d'appello, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, aveva così ordinato alla società di versare all'INPS i contributi previdenziali dal 1° maggio 2004 al 4 marzo 2009, commisurati alle retribuzioni quantificate per il corrispondente periodo nella consulenza tecnica d'ufficio. Avverso la sentenza di secondo grado ricorreva in cassazione il lavoratore, affidandosi a cinque motivi. La Corte di Cassazione ricorda l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, in caso di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro è obbligato a versare i contributi previdenziali ed assistenziali dal dì del licenziamento a quello della reintegrazione del lavoratore. Si tratta, tuttavia, di una ipotesi eccezionale di condanna a favore di un terzo, che non richiede né la partecipazione al giudizio dell'ente previdenziale né una specifica domanda del lavoratore. Ciò in quanto i contributi previdenziali obbligatori sono considerati obbligazioni pubbliche, analoghe a quelle tributarie per la loro origine legale e per la loro destinazione a beneficio di enti pubblici per l'espletamento delle loro funzioni sociali (cfr. Cass., Sez. Un., n. 10232/2003; Cass. n. 2130/2018). In tale ipotesi, la prescrizione quinquennale del credito contributivo dell'INPS inizia a decorrere solo dopo l'ordine di reintegrazione e si converte in prescrizione decennale, ai sensi dell'art. 2953 c.c., con il passaggio in giudicato della relativa sentenza (cfr. Cass. n. 6722/2021). Non è, però, possibile equiparare questa fattispecie a quella della conversione di un rapporto di lavoro a termine in un rapporto a tempo indeterminato a causa della nullità del termine finale apposto. In tal caso si applica la normativa ordinaria in tema di obbligazioni (tranne che per il profilo risarcitorio, disciplinato dall'art. 32 della L. 183/2010). Il rapporto di lavoro deve ritenersi come se non si fosse mai estinto, per cui, nel periodo che intercorre fra la scadenza del termine nullo e la sentenza dichiarativa di tale nullità, l'assenza della prestazione lavorativa giustifica la mancata corresponsione della retribuzione, in ragione del vincolo sinallagmatico tipico del contratto di lavoro subordinato (cfr. Corte Cost. n. 29/2019; Cass., Sez. Un., n. 2990/2018; Corte Cost. n. 303/2011). Rimane, invece, invariato l'obbligo in capo al datore di lavoro di versare i contributi previdenziali relativi al rapporto di lavoro, proprio perché esso non è estinto. Secondo la giurisprudenza l'obbligazione contributiva è svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e si caratterizza piuttosto per la predeterminabilità e l'oggettività. Pertanto, la contribuzione è dovuta anche nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione concordata della prestazione lavorativa che costituisce il frutto di un accordo tra le parti, derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo medesimo (Cass. n. 15120/2019). Quanto detto vale a maggior ragione nell'ipotesi in cui la mancata prestazione lavorativa e la conseguente assenza di retribuzione dipendano dalla nullità del termine finale originariamente apposto al contratto. In tal caso l'INPS può esercitare il suo diritto sin dalla scadenza del termine finale nullo, non esistendo alcun impedimento di diritto rilevante ai sensi dell'art. 2935 c.c. L'impossibilità di far valere il diritto - a cui l'art. 2935 c.c. attribuisce la rilevanza di fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione - sussiste solo in presenza di cause giuridiche che ne ostacolano l'esercizio. Le incertezze giurisprudenziali relative alle modalità di esercizio o alla qualificazione dell'azione non precludono l'esercizio immediato del diritto, costituendo un mero impedimento di fatto (tra tutte, Cass. n. 13343/2022). Analogamente, sono considerati impedimenti di mero fatto - e come tali inidonei ad impedire la decorrenza del termine prescrizionale - l'ignoranza del fatto che ha generato il diritto, il dubbio soggettivo sulla sua esistenza ed il ritardo causato dalla necessità di accertarlo (cfr. Cass. n. 996/2022; Cass. n. 21026/2014; Cass. n. 3584/2012) così come il ritardo derivante dalla colpevole incuria del titolare del diritto (Cass. n. 1889/2018). In caso di controversa natura di un rapporto di lavoro, il termine di prescrizione dei contributi previdenziali inizia a decorrere dalla scadenza del termine fissato dall'ordinamento per il pagamento dei contributi, ossia dal giorno 21 del mese successivo a quello della maturazione del diritto alla retribuzione e non dalla data successiva della sentenza che accerta la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti (Cass. n. 8921/2023). Orbene, nel caso in esame, il termine di prescrizione del diritto dell'INPS ai contributi previdenziali decorre dalla scadenza del termine nullo, giorno per giorno. Si ricompone così la simmetria fra il diritto dell'INPS di pretendere i contributi medio tempore e, in caso di omessa contribuzione, il diritto del lavoratore alla c.d. regolarizzazione contributiva. Quest'ultima costituisce una forma di risarcimento in forma specifica del danno derivante dalla mancata contribuzione. Per entrambi il dies a quodella decorrenza del termine prescrizionale coincide con la scadenza del termine nullo. Ne consegue che per la parte di contributi prescritti si verifica la condizione alla quale erano subordinate le altre domande del lavoratore: quella di costituzione della rendita vitalizia e del risarcimento del danno per equivalente. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità vi è un indubbio interesse del lavoratore all'integrità dei contributi versati dal datore di lavoro che si traduce in un vero e proprio diritto. E la lesione di questo diritto determina un danno risarcibile, per il quale può essere invocata la tutela ex art. 2116 c.c. anche prima del completamento degli eventi che determinano l'insorgenza del danno (cfr. Cass. n. 701/2024). Se il lavoratore non fosse titolare del diritto ai contributi previdenziali, nel caso di scadenza del termine nullo non potrebbe neppure esercitarlo. Pertanto, nei suoi confronti ciò che si prescrive è solo il diritto al risarcimento del danno in forma specifica (ossia la regolarizzazione contributiva mediante il versamento dei contributi all'INPS), quale “species” del danno risarcibile ex art. 2116, co. 2, c.c. Trattandosi di una domanda volta ad ottenere una condanna a pagare ad un terzo (ossia all'INPS), che è considerato contraddittore necessario della relativa controversia, è evidente che anche per il lavoratore detto diritto può essere fatto valere solo se l'INPS sia in grado di ricevere i contributi oggetto della condanna. Ciò è, in sostanza, possibile solo se i contributi non siano prescritti con la conseguenza che il dies a quo del termine di prescrizione deve necessariamente coincidere per l'INPS e per il lavoratore. In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione rigetta il primo motivo di ricorso formulato dal lavoratore e cassa la sentenza in relazione agli altri motivi accolti, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL