La Cassazione, con la sentenza 30994 del 4 dicembre 2024, fornisce la risposta (attesa) alla controversa questione degli effetti della incumulabilità tra redditi di lavoro dipendente e titolarità di pensione di anzianità anticipata (articolo 14 del Dl 4/201, convertito con modificazioni nella legge 26/2019 – cosiddetta quota 100). La norma citata prevede, al comma 1, la possibilità per gli iscritti all’Ago e alla gestione separata di conseguire il diritto a pensione anticipata qualora in possesso di una età anagrafica di almeno 62 anni e di una anzianità contributiva minima di 38 anni. Il comma 3 sancisce il principio della incumulabilità di questo trattamento, a far data dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia, con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, a eccezione di quelli derivanti da lavoro autonomo occasionale, nel limite di 5mila euro lordi annui. La questione che la giurisprudenza di merito ha sovente affrontato in materia, in assenza di indicazioni specifiche in relazione al concetto di incumulabilità, è quella della verifica degli effetti della percezione di redditi da lavoro dipendente in corso di godimento del trattamento pensionistico anticipato. Secondo una diffusa interpretazione, infatti, la norma vieta che la pensione anticipata possa sommarsi con il reddito da lavoro, con la conseguenza che il reddito di lavoro percepito deve essere detratto dalla pensione anticipata, dando luogo a un indebito di pari importo, soggetto al recupero da parte dell’istituto previdenziale (nella norma, peraltro, non vi è traccia di conseguenze più drastiche - sull’intera annualità - legate alla violazione del divieto di cumulo). Tale interpretazione più mite vuole, in fondo, evitare che svolgimento di attività lavorativa per periodi di tempo limitati e con basso reddito possa pregiudicare (ingiustamente) la fruizione di trattamento previdenziale strutturato, continuo e rilevante, reso in tempi anticipati. L’Inps, dal canto suo, interpreta la norma in modo diverso: qualsiasi percezione di reddito da lavoro, anche in misura minima e per un periodo limitato, comporta la perdita dell’intera pensione dell’anno solare di riferimento (punto 1.4 della circolare 117 del 9 agosto 2019: «Il pagamento della pensione è sospeso nell’anno in cui siano stati percepiti i redditi da lavoro .. nonché nei mesi dell’anno, precedenti quello di compimento dell’età richiesta per la pensione di vecchiaia, in cui siano stati percepiti i predetti redditi. Pertanto, i ratei di pensione relativi a tali periodi non devono essere corrisposti ovvero devono essere recuperati ai sensi dell’articolo 2033 c.c. ove già posti in pagamento»). Su questo versante era del resto intervenuta la stessa Corte costituzionale (sentenza 234/2022, che aveva ritenuto legittima l’applicazione del divieto di cumulo, in una prospettiva conforme all’effettiva uscita del futuro pensionato dal mercato del lavoro, anche allo scopo di favore di un reale cambio generazionale. Secondo la Consulta, in quest’ottica non poteva ritenersi illegittima la scelta del legislatore di prevedere il divieto di cumulo, neppure considerando la sproporzione che avrebbe potuto in concreto determinarsi fra l’entità dei redditi da lavoro percepiti dal pensionato che ha usufruito della cosiddetta “quota 100” e i ratei di pensione la cui erogazione è sospesa. La Cassazione si pone sulla scia delle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale, evidenziando la natura di questo trattamento pensionistico anticipato. Si tratta di un regime di quiescenza disciplinato da regole molto più favorevoli rispetto al sistema ordinario, per cui la percezione da parte del pensionato di un qualsiasi reddito da lavoro dipendente costituisce un elemento fattuale che contraddice il presupposto richiesto dal legislatore per l’accesso e la fruizione del trattamento anticipato. In altri termini, chi ricorre a questo strumento di favore ottiene un risultato particolarmente vantaggioso rispetto a chi percorra la via ordinaria; ed è quindi legittima, anche considerando i fini sociali e rivolti al mercato del lavoro della norma, la risposta in termini di incompatibilità assoluta tra redditi da lavoro e fruizione del trattamento per l’intero anno solare di riferimento. La perdita totale del trattamento pensionistico per l’intero anno solare, e non semplicemente limitatamente al periodo di lavoro svolto o ai redditi percepiti, è dunque pienamente conforme e giustificata alla luce della necessità di favorire il ricambio generazionale e l’abbandono del mondo del lavoro da parte dei soggetti che hanno optato per tale misura (la cassazione parla di ratio solidaristica). Questa interpretazione restrittiva, che di fatto comporta la privazione del trattamento pensionistico per l’intero anno solare, peraltro, non risulta - secondo la Cassazione - in contrasto con l’articolo 38 della Costituzione, in quanto l’intento solidaristico è stato contraddetto da un elemento fattuale introdotto dal pensionato medesimo. Resta da dire che il principio espresso da questa pronuncia non potrà essere ignorato in tutte quelle ipotesi in cui, al netto della disciplina di dettaglio, in presenza di trattamenti pensionistici di particolare vantaggio (perché anticipati o perché assegnati con requisiti ridotti), l’assicurato percepisca redditi da lavoro cumulandoli con quelli derivanti dal trattamento pensionistico, con il rischio quindi di dover restituire il ratei riscossi relativamente all’anno solare di riferimento.
Fonte: SOLE24ORE