Risarcimento commisurabile al danno per i contratti a termine

Risarcimento commisurabile al danno per i contratti a termine

  • 28 Ottobre 2024
  • Pubblicazioni
Il decreto legge 131/2024 (Salva infrazioni) interviene anche sulla disciplina dei contratti di lavoro a termine, in particolare sul regime sanzionatorio, dando seguito alle indicazioni della procedura di infrazione con la quale l’Ue ha richiesto all’Italia di allineare la normativa interna alla direttiva 1999/70/Ce sul lavoro a tempo determinato. L’intervento consiste in due norme distinte (articoli 11 e 12), riferite la prima ai datori di lavoro privati e la seconda al settore pubblico. Cominciamo dal settore pubblico, nel quale la questione delle conseguenze della violazione dei limiti al ricorso al contratto a termine ha radici lontane. La disposizione sulla quale il decreto legge è intervenuto è l’articolo 36 del Dlgs 165/2001 (norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nel quale anzitutto si afferma che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori (tra le quali rientrano quelle che pongono limiti ai rapporti a termine) non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni, diversamente da quanto accade nel settore privato. Una disposizione in linea con quanto previsto dall’articolo 97 della Costituzione, che prevede l’accesso solo per concorso agli impieghi pubblici e la necessaria previa programmazione di qualsiasi assunzione a tempo indeterminato. L’unica sanzione prevista per le violazioni rimane dunque il risarcimento del danno che, per come era congegnata la norma originaria, doveva essere provato dal lavoratore secondo le regole generali. A più riprese la Corte di giustizia Ue ha affermato che gli Stati membri non debbono necessariamente sanzionare gli abusi in materia di contratto a termine con la trasformazione del rapporto, purché le diverse sanzioni siano dissuasive ed efficaci. Sulla scorta di tali decisioni, la giurisprudenza italiana (a partire dalla sentenza delle sezioni unite della Cassazione 5072/2016) ha adottato una interpretazione adeguatrice della norma, attribuendo al dipendente pubblico, in caso di abuso nel ricorso al contratto a termine, il medesimo importo risarcitorio forfettario previsto nel settore privato (da 2,5 a 12 mensilità) prima dall’articolo 32 della legge 183/2010 e poi dall’articolo 28 del Dlgs 81/2015. Si è parlato, al riguardo, di “danno comunitario”. Ciononostante la Commissione Ue ha ritenuto tale adeguamento non sufficientemente dissuasivo, dando corso alla procedura di infrazione. Di qui la norma ora introdotta, nella quale si prevede che, nel caso di abuso nell’utilizzo di una successione di contratti o rapporti a termine, l’indennizzo sia compreso tra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità, avuto riguardo alla gravità della violazione, anche in base al numero dei contratti intervenuti tra le parti e alla durata complessiva del rapporto, fatta salva la facoltà per il lavoratore di provare il maggior danno. Viene incrementato quindi l’importo forfettario e si lascia la possibilità di provare il maggior danno. Un inasprimento del regime sanzionatorio indennitario che si può anche comprendere, alla luce dell’impossibilità, per il dipendente pubblico, di ottenere dal giudice la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto. Meno comprensibile (e per molti versi anzi ingiustificata e inopportuna) appare la modifica per i datori di lavoro privati introdotta dal decreto all’articolo 28 del Dlgs 81/2015. Quest’ultima norma, nel testo originario, prevede che il lavoratore, che ottenga in giudizio la conversione di un rapporto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato, abbia diritto, per il periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto, a un’indennità onnicomprensiva variabile tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità, determinata tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore nonché del comportamento e delle condizioni delle parti, indennità che può essere ridotta alla metà in presenza di disposizioni collettive recanti procedure di stabilizzazione. La modifica introdotta dal decreto Salva infrazioni consiste nella possibilità per il giudice di riconoscere un indennizzo anche in misura superiore alle 12 mensilità, qualora il lavoratore dimostri di aver subito un maggior danno e nella eliminazione della possibilità di riduzione rimessa ai contratti collettivi. Una modifica che si pone in contrasto con le decisioni della Corte costituzionale la quale, con riferimento tanto ai contratti a termine quanto ai licenziamenti, ha sempre ritenuto ragionevole e costituzionalmente compatibile la forfettizzazione del risarcimento (purché adeguata), e soprattutto non considera che la sanzione della trasformazione del rapporto è già di per sé più che efficacemente dissuasiva, come ben sa chiunque operi sul campo. Con l’effetto di rilanciare la discrezionalità del giudice e il rischio (già segnalato su questo giornale) di far pagare ai datori di lavoro i ritardi della giustizia.


Fonte: SOLE24ORE