Uno sfogo telefonico di rabbia, pure inopportuno, illegittimo e reiterato in una seconda occasione con lo stesso mezzo, non può porre in dubbio stabilmente la correttezza della prestazione per il futuro e, quindi, legittimare il licenziamento disciplinare. A dichiararlo è la Cassazione, con ordinanza 9 settembre 2024 n. 24136. Nel caso in esame una società aveva inviato il 19 luglio 2019 ed il successivo 23 luglio due lettere di contestazioni ad un proprio dipendente per aver proferito telefonicamente ingiurie, offese e bestemmie nei confronti del preposto del personale. A dette contestazioni era seguito il 16 agosto il licenziamento disciplinare che veniva impugnato giudizialmente dal lavoratore. In giudizio, il Tribunale aveva respinto l'opposizione del lavoratore all'ordinanza dal medesimo emessa che, nella fase sommaria ex Legge n. 92/2012 aveva rigettato le sue domande di applicazione dell'art. 18 della Legge n. 300/1970 in relazione al licenziamento subito. La Corte distrettuale, in parziale accoglimento del reclamo proposto dal lavoratore contro la sentenza di primo grado e in sua riforma, aveva dichiarato estinto il rapporto di lavoro tra le parti in causa e condannato la società al pagamento di otto mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento, oltre alle spese del doppio grado di giudizio. Per quanto di precipuo interesse, la Corte aveva respinto il primo motivo di reclamo, con cui il lavoratore si era lamentato del rigetto della sua domanda di retrodatazione del rapporto (in forza di una serie di trasferimenti di azienda), al fine di avvalersi della tutela ex art. 18 L. n. 300/1970. Ed entrando nel merito, la stessa aveva ritenuto non sussistente la proporzionalità tra la condotta di insubordinazione, indubbiamente commessa, e la sanzione comminata, ritenendo applicabile al caso di specie la tutela risarcitoria ex art. 3, comma 1, del D.lgs. n. 23/2015, come modificato dal d.l. 87/2018, anche in considerazione della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018. La Corte d'appello, considerata la modesta anzianità di servizio del lavoratore e avuto riguardo alle dimensioni dell'impresa nonché alle condizioni delle parti (specificamente alle ragioni che avevano determinato la condotta – comunque illegittima – contestata, ossia un ritardo nei pagamenti da parte della società, e gravi situazioni personali e familiari che avevano causato l'improprio sfogo del quale si era il lavoratore nell'immediatezza scusato), aveva giudicato equa la condanna della società nei termini sopra descritti. Avverso la sentenza ricorreva in cassazione la società che proponeva ricorso per cassazione, affidandosi a quattro motivi. La Corte di Cassazione, investita della causa, sottolinea, tra le altre, che la Corte distrettuale, con una motivazione incensurabile in sede di legittimità, ha osservato quanto segue in tema di licenziamento disciplinare: “ai fini della valutazione di proporzionalità è insufficiente un'indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato è riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l'irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (Cass. n. 13411/2020)”. Pertanto, continua la Corte di Cassazione, “la grave insubordinazione – che, diversamente da quanto sostenuto dal lavoratore, pure può ritenersi sussistente in difetto della violazione di un ordine, laddove ricorra una condotta irrispettosa del ruolo del preposto – deve essere calata nel caso concreto al fine di verificare se la stessa sia idonea a dimostrare la scarsa attitudine ad attuare diligentemente gli obblighi assunti per il futuro”. E non sembra che “uno sfogo telefonico di rabbia, pure inopportuno e illegittimo e reiterato in una seconda occasione con lo stesso mezzo, possa porre in dubbio stabilmente la correttezza della prestazione per il futuro e quindi possa legittimare il recesso della società dal rapporto di lavoro”. In sostanza, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno considerato le previsioni del CCNL di settore in tema di licenziamento, reputandole nella fattispecie di che trattasi non vincolanti. Ciò in quanto, le condotte contestate, pur reiterate ed astrattamente riconducibili all'ipotesi di “grave insubordinazione”, contemplata nel CCNL, non era tali da integrare “la scarsa attitudine ad attuare diligentemente gli obblighi assunti per il futuro”. Pertanto, sottolinea la Corte di Cassazione, “è chiaro che non si è fatto (…) riferimento all'ipotesi legale del recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c. (…)”, non sussistendo “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. Piuttosto il caso è stato correttamente valutato in chiave di “giustificato motivo soggettivo”, escludendone, però, la ricorrenza. Il “comportamento del lavoratore non poteva (..) porre in dubbio stabilmente la correttezza della prestazione per il futuro e quindi … legittimare il recesso della società dal rapporto di lavoro”. In considerazione di quanto sopra, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso, condannando la società al pagamento delle spese di lite.
Fonte: QUOTIDIANO PIU' - GFL